Iraq, Obama ordina i raid colpite postazioni jihadiste “Evitiamo un genocidio”

Iraq, Obama ordina i raid colpite postazioni jihadiste “Evitiamo un genocidio”

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ISIS sta per Stato islamico in Iraq e Siria, le milizie fondamentaliste sunnite che ora si sono ribattezzate Is, e che, dopo aver combattuto contro il regime Assad, hanno conquistato anche una parte dell’Iraq. Ambiscono a ricostituire il “Grande Califfato” in Medio Oriente, sono più radicali perfino rispetto ad Al Qaeda, attirano proseliti dal mondo intero e predicano una nuova jihad: contro gli sciiti e contro l’Occidente.
Nell’immediato l’azione ordinata da Obama ha una portata limitata, coinvolge solo l’aviazione, non prevede il ritorno di truppe terrestri. La U.S. Air Force ha una missione circoscritta per ora a due obiettivi, «proteggere i cittadini americani in pericolo da Bagdad a Erbil; spezzare l’assedio dell’Is che sta provocando una tragedia umanitaria». Sul monte Sinjar, nell’Iraq settentrionale, decine di migliaia di profughi sono incalzati dalle milizie jihadiste, gli aerei da trasporto americani C-130 hanno effettuato lanci di cibo e medicinali, poi gli F-18 hanno attaccato l’artiglieria sunnita. Una seconda ondata di raid è partita ieri pomeriggio sempre alle porte di Erbil: un drone ha colpito una postazione di artiglieria, mentre i caccia partiti dalla portaerei George H. W. Bush di stanza nel Golfo Persico, hanno bombardato un convoglio di sette veicoli, uccidendo alcuni miliziani. «Evitare un genocidio », è l’ordine impartito da Obama al Pentagono, ed è la spiegazione offerta agli americani.
Obama diventa così, dopo i due Bush e Bill Clinton, il quarto presidente consecutivo a lanciare un intervento militare in quell’Iraq che il New York Times definisce in modo sinistro: «Il cimitero delle ambizioni americane». Lo stesso Obama nell’annunciare la sua decisione alla nazione, giovedì sera aveva ricordato di essere stato contrario alla guerra in Iraq del 2003; e di aver mantenuto la sua promessa elettorale sul ritiro delle truppe nel 2011. Cosa lo spinge ora a un dietrofront, sia pure con un iniziativa limitata?
La motivazione ufficiale ha una sua validità. Proteggere i curdi, da sempre i più fedeli amici dell’America in Iraq, e quel che resta di una presenza (civile) americana in quel paese. La città di Erbil è cruciale: fino a un’epoca recente era molto più sicura di Bagdad perché saldamente sotto controllo dei “peshmerga”, i combattenti curdi che difendono la propria autonomia dal governo centrale. Perciò Erbil è diventata la sede prediletta di molti espatriati occidentali, a cominciare dai tecnici dell’industria petrolifera: il Kurdistan ha ricche riserve energetiche solo parzialmente sfruttate. Se cade Erbil centinaia di occidentali possono finire nelle mani delle milizie sunnite. Queste ultime, sotto gli ordini del leader Abu Bakr al-Baghdadi, hanno sorpreso gli americani
con una svolta tattica repentina. Dopo la conquista di Mosul in primavera, tutti si attendevano che l’Is puntasse verso Bagdad per spodestare il governo sciita di al-Maliki. Invece i combattenti sunniti hanno cambiato direzione, attaccando il Kurdistan e la capitale Erbil.
Per l’America difendere i curdi è essenziale: sono uno dei pochi elementi di stabilità dell’area. Perfino la Turchia, paese membro della Nato ma tradizionalmente ostile ai curdi, di recente ha cominciato ad appoggiare l’idea di un Kurdistan indipendente dall’Iraq, pur di avere un cuscinetto che la isoli dalle scorribande dell’Is. Verso il Kurdistan sono affluite in cerca di protezione anche altre minoranze religiose, dai cristiani ai seguaci di Zoroastro (Yezidi) terrificati dalle persecuzioni a cui andrebbero incontro sotto le milizie fondamentaliste.
La dimensione religiosa domina nel linguaggio del capo sunnita Abu Bakr al-Baghdadi che ha lanciato un messaggio di sfida all’America: «Mi rivolgo a voi americani, detentori della Croce cristiana. Ben presto vi troverete in uno scontro diretto con i figli dell’Islam, che si sono preparati a combattervi». Il progetto del Grande Califfato preoccupa Obama perché sta diventando un catalizzatore di militanti fondamentalisti, unendo un “arco di crisi” che va dal Pakistan alla Nigeria, dall’Afghanistan alla Siria.



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