Gli spazi infiniti del razzismo

Gli spazi infiniti del razzismo

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A distanza di tre anni dalla pre­ce­dente edi­zione, Luna­ria pub­blica il Terzo Libro bianco sul razzismo in Ita­lia. Que­sta volta lo sguardo si allarga sull’Europa, sulle pul­sioni nazio­na­li­ste e xeno­fobe emerse dalle ele­zioni di fine mag­gio, sulle poli­ti­che comu­ni­ta­rie – sicu­ri­ta­rie e repres­sive – in mate­ria di migra­zioni. Pro­prio in que­sti giorni, diciot­to­mila effet­tivi delle forze dell’ordine sono impe­gnati su tutto il ter­ri­to­rio dell’Unione a con­trol­lare le per­sone di ori­gine stra­niera: è “Mos Maio­rum”, ope­ra­zione di poli­zia euro­pea con l’obiettivo dichia­rato dal Con­si­glio d’Europa di «inde­bo­lire la capa­cità del cri­mine orga­niz­zato nel favo­reg­gia­mento dell’immigrazione ille­gale». In con­creto, l’operazione col­pi­sce i migranti privi di docu­menti, fer­mati, iden­ti­fi­cati, ed espulsi.

Il Libro bianco di Luna­ria è stato pre­sen­tato a Roma gio­vedì scorso, nell’ambito delle ini­zia­tive del Salone dell’editoria sociale. Solo due giorni prima, nella Capi­tale si è veri­fi­cato un epi­so­dio grave e pre­oc­cu­pante: nel quar­tiere di Casal­ber­tone mili­tanti di Casa­pound e Lega Nord hanno impe­dito l’ingresso degli stu­denti stra­nieri nel Cen­tro ter­ri­to­riale di for­ma­zione per­ma­nente. E sem­pre nella zona sud-est di Roma, a Tor­pi­gnat­tara (dove a fine set­tem­bre un cit­ta­dino pachi­stano è stato bru­tal­mente ucciso da un dicias­set­tenne ita­liano), espo­nenti della destra romana hanno orga­niz­zato gio­vedì 16 otto­bre una rac­colta di firme con­tro la pre­senza di cit­ta­dini di ori­gine stra­niera, nel ten­ta­tivo di farne il capro espia­to­rio dei pro­blemi di un quar­tiere abban­do­nato dalle isti­tu­zioni.
Si tratta sol­tanto di due tra i più recenti esempi del raz­zi­smo quo­ti­diano che per­mea tutti gli ambiti della società, e che Luna­ria rico­strui­sce e ana­lizza nelle pagine del Libro bianco. Il raz­zi­smo non è infatti solo quello effe­rato e inquie­tante della vio­lenza per le strade, assai dif­fuso nono­stante se ne parli ben poco. Non è solo quello dell’offesa urlata, e quasi sem­pre minimizzata.

Il raz­zi­smo è nel mondo del lavoro, là dove si con­sente ancora oggi che le per­sone ven­gano sot­to­messe al capo­ra­lato, con paghe da fame e con­di­zioni di vita e di lavoro inde­gne. E’ nel mondo dell’informazione, che ancora reputa nor­male defi­nire «clan­de­stino» una per­sona priva di per­messo di sog­giorno, e «zin­garo» chi appar­tiene alla mino­ranza rom. È nei media – vec­chi e nuovi – che caval­cano i peg­giori pre­giu­dizi radi­cati nel tes­suto sociale, sol­le­ti­cando gli ste­reo­tipi e diven­tan­done cassa di riso­nanza. E’ nel mondo poli­tico, dove la pre­senza di una mini­stra nera è motivo per lan­ciare offese gravi e spre­ge­voli, deru­bri­cate pun­tual­mente a sem­plici bat­tute. E’ nel mondo dello sport: sugli spalti, da cui ven­gono lan­ciate banane all’indirizzo di gio­ca­tori neri, e nelle alte diri­genze, dove le banane ven­gono men­zio­nate asso­cian­dole alla pre­senza di atleti stra­nieri. E’ nelle scuole, dove si creano classi dedi­cate esclu­si­va­mente agli alunni privi di cit­ta­di­nanza ita­liana. Il raz­zi­smo è nelle leggi, per le quali una per­sona figlia di geni­tori stra­nieri, ma nata e cre­sciuta in Ita­lia, resta comun­que «straniera».

Gli ita­liani non sono raz­zi­sti, si sente dire spesso, nel ricordo di un pas­sato migra­to­rio non molto lon­tano. Ma la memo­ria, se non ade­gua­ta­mente soste­nuta e ali­men­tata, è labile. E la realtà attuale è molto diversa, in una società in cui gli anti­corpi cul­tu­rali, sociali, poli­tici e isti­tu­zio­nali per respin­gere il raz­zi­smo sono del tutto insuf­fi­cienti. La cono­scenza, l’analisi, il con­fronto, la (ri)costruzione di una cul­tura dif­fusa dell’eguaglianza, insieme alla mobi­li­ta­zione sociale e alle atti­vità di tutela giu­ri­dica, con­tri­bui­scono a con­tra­starlo. Il lavoro di Luna­ria si pone appunto que­sto obiet­tivo. Diviso in tre sezioni, il Libro bianco sul raz­zi­smo pro­pone un’analisi del con­te­sto poli­tico e cul­tu­rale in cui le mol­te­plici forme di raz­zi­smo pren­dono piede, con una par­ti­co­lare atten­zione alle poli­ti­che nazio­nali e comu­ni­ta­rie, alla giu­ri­spru­denza, al mer­cato del lavoro. Un aspetto par­ti­co­lar­mente impor­tante, quest’ultimo, in un periodo di crisi eco­no­mica nel nome della quale i diritti ven­gono messi in discus­sione e peri­co­lo­sa­mente ripen­sati come pri­vi­legi subor­di­nati all’appartenenza nazio­nale, in una guerra «noi/loro» in cui si esce tutti perdenti.

Un’ampia sezione del Libro bianco è poi dedi­cata al mondo dell’informazione: per­ché il ruolo dei media, da sem­pre fon­da­men­tale nell’orientamento dell’opinione pub­blica e dell’agenda poli­tica, lo è ancora di più oggi, in un’epoca di comu­ni­ca­zione rapida, imme­diata, virale, dif­fusa. La terza parte è inti­to­lata infine «Cro­na­che di ordi­na­rio raz­zi­smo», pro­prio come il sito con cui Luna­ria moni­tora, ana­lizza e denun­cia ogni giorno l’evoluzione del raz­zi­smo in Ita­lia. Due­mi­la­cin­que­cen­to­ses­san­ta­sei sono i casi di discri­mi­na­zioni e vio­lenze raz­zi­ste docu­men­tati, tra l’1 set­tem­bre 2011 e il 31 luglio 2014, in un data­base con­sul­ta­bile on-line.

L’analisi di alcuni casi emble­ma­tici degli ultimi tre anni ci ricorda che il raz­zi­smo per­mea tutti gli spazi e i rap­porti sociali. Il tutto men­tre il Medi­ter­ra­neo è ancora un mare in cui è troppo facile morire. E non è pos­si­bile non iden­ti­fi­carne una delle cause prin­ci­pali nella mio­pia delle scelte isti­tu­zio­nali nazio­nali ed euro­pee che, mar­gi­na­liz­zando alcune per­sone in ragione della loro appar­te­nenza nazio­nale e con­fi­nan­dole a esi­stere solo in virtù di un docu­mento, rap­pre­sen­tano una delle più gravi forme di razzismo.

Il Libro bianco parla di tutto que­sto gra­zie al lavoro di Paola Andri­sani, Ser­gio Bon­tem­pelli, Guido Cal­di­ron, Serena Chiodo, Daniela Con­soli, Giu­seppe Faso, Gra­zia Naletto, Enrico Pugliese, Anna­ma­ria Rivera, Mau­ri­zia Russo Spena, Duc­cio Zola: uno stru­mento di lavoro e rifles­sione a dispo­si­zione di tutti, sca­ri­ca­bile gra­tui­ta­mente all’indirizzo https://?www?.luna?ria?.org/?w?p?-?c?o?n?t?e?n?t?/?u?p?l?o?a?d?s?/?2?0?1?4?/?1?0?/?i?m?p?a?g?i?n?a?t?o?-?l?o?w?.?pdf.



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  1. Gianni Sartori
    Gianni Sartori 20 Ottobre, 2014, 13:32

    1944-2014: a settanta anni di distanza, un ricordo di
    SARA CHE NON VOLEVA MORIRE…

    (Gianni Sartori)

    Ci sono storie che insegui inconsapevolmente per anni, o forse sono quelle storie che ti inseguono…
    Una prima volta ne avevo sentito parlare circa trenta anni fa. Un giro in bici, una sosta nella piazzetta di un paese mai visto prima, un casuale incontro con un’anziana che aveva assistito ai fatti di persona. Mi parlò di un evento all’epoca poco conosciuto (“obliterato”), su cui poco pietosamente veniva steso un velo di silenzio: la deportazione in una antica villa padronale di Vò Vecchio (Villa Contarini-Venier) di un gruppo di ebrei rastrellati nel Ghetto di Padova (dicembre 1943). E mi accennò ad un episodio ancora più inquietante, il tentativo di una bambina (forse spinta dalla madre) di nascondersi in una barchessa per evitare la definitiva deportazione (luglio 1944).
    Qualche anno dopo (sempre casualmente) raccolsi altri particolari da una parente, forse una nipote, dell’anziana ormai scomparsa. La bambina sarebbe stata riportata ai tedeschi il giorno dopo, forse per timore di rappresaglie. Fatto sta che emerse nel racconto una precisa responsabilità delle Suore Elisabettiane (incaricate di occuparsi della cucina del campo di concentramento) nel “restituire” Sara agli aguzzini. Ricordo che il controllo del campo di Vò Vecchio, uno dei circa 30 istituiti dalla R.S.I. di Mussolini, era affidato a personale di polizia italiano (presenti anche alcuni carabinieri). Invece la lapide sulla facciata della villa in memoria di quanti non ritornarono (posta soltanto nel 2001) ne parla come di un evento avvenuto “durante l’occupazione tedesca” senza un accenno alle responsabilità del fascismo italiano.
    Il tragitto dei 43 Ebrei da Vò Vecchio verso la soluzione finale è ormai noto e ben documentato. La macchina burocratica funzionava alla perfezione e la pratica di ognuno dei deportati proseguì regolarmente grazie a decine di anonimi complici, esecutori senza volto.
    Fatti salire su due camion, vennero prima richiusi nelle carceri di Padova e poi inviati a Trieste, nella Risiera di San Sabba. Tappa definitiva, Auschwitz.
    Quanto alla bimba, si chiamava Sara Gesses (doveva avere sei o sette anni, ma alcune fonti parlano di dieci) e, questo l’ho saputo solo recentemente, venne riportata a Padova con la corriera (quella di linea) dal comandante del campo in persona, Lepore (in alcuni scritti viene definito “più umano” rispetto al suo predecessore). Anche al momento di salire sulla corriera Sara si sarebbe ribellata, avrebbe pianto, gridato, forse scalciato. Vien da chiedersi come il zelante funzionario abbia poi potuto convivere con il ricordo di questa creatura condotta al macello. Ma in fondo Lepore non era altro che una delle tante indispensabili rotelline dell’ingranaggio, un cane da guardia addomesticato, servo docile incapace di un gesto sia di ribellione che di compassione. Pare che un maldestro tentativo di giustificarsi sia poi venuto da parte delle suore che dissero di aver agito in quel modo “per riportarla insieme alla mamma”. L’ipocrisia a braccetto con la falsa coscienza.
    In precedenza, insieme ai genitori, la bambina era stata catturata vicino al confine con la Svizzera durante un tentativo di fuga e quindi riportata nel padovano. Sembra anche che la madre riuscisse a farla scivolar fuori dal finestrino di un’altra corriera, quella che dal carcere di Padova stava portando i prigionieri a Trieste. Purtroppo invano. Sara venne immediatamente ripresa dagli sgherri nazifascisti.
    In Polonia la maggior parte dei 47 deportati (tra cui Sara) venne immediatamente “selezionata” per le camere a gas. Solo una decina venne momentaneamente risparmiata e di questi solo tre sopravvissero.
    Sara che non aveva incontrato nessun “giusto” sul suo cammino venne avviata alla camera a gas appena scesa dal convoglio 33T sulla rampa di Birkenau, nella notte tra il 3 e il 4 agosto agosto 1944.
    La sua “morte piccina” (come quella della bambina di Sidone cantata da De André) rimane un delitto senza possibile redenzione, ma di cui dobbiamo almeno conservare la memoria.
    Gianni Sartori (settembre 2014)

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