Il ragazzo di 26 anni condannato a passare i prossimi 25 anni (tanto prevede la legge egiziana per l’ergastolo) in una prigione, non è un pericoloso criminale, né un assassino o uno stupratore: Ahmed Douma è un blogger, un attivista politico, un laico, fatte salve tutte le ambiguità che questo termine porta con sé nel mondo arabo.
Nel 2011, quando il profumo dei gelsomini della Tunisia arrivò anche in Egitto e un gruppo di ragazzi iniziarono la protesta che avrebbe rovesciato Hosni Mubarak dopo 30 anni di potere, Ahmed era lì. Insieme a Ahmed Maher, Mohamed Adel e Alaa Abdel Fatah – amici e compagni di lotta anche loro oggi in carcere – e moltissimi altri si accampò in piazza Tahrir, incitando il paese alla rivolta: quando dopo 18 giorni il presidente si dimise, il mondo pensò che quei giovani testardi e idealisti riuniti intorno al Movimento 6 aprile, da anni spina del fianco del regime egiziano, avevano vinto.
Valutazione errata: dopo quei giorni vennero quelli della controrivoluzione, dei militari al potere. Poi quelli del timore della dittatura religiosa dei Fratelli musulmani e infine quelli della restaurazione definitiva targata generale Mohamed Al Sisi.
In tutte queste fasi, scandite da un pesante tributo di sangue, Ahmed Douma era lì: con il suo sorriso e il suo pugno alzato al cielo, a giurare ai giornalisti occidentali che la rivoluzione non era finita, che «il popolo voleva ancora la fine del regime», come recita uno degli slogan più famosi della rivoluzione, che il tempo avrebbe dato giustizia a lui e agli altri egiziani che chiedevano giustizia e libertà. O meglio: c’era e non c’era. Perché come Alaa Abdel Fatah, noto al mondo come @Alaa su Twitter, un’altra delle voci chiave dell’Egitto di oggi, Ahmed ad ogni cambio di potere è finito in carcere: arrestato dalla poÈ lizia di Mubarak prima, dai militari poi, dagli uomini dei Fratelli musulmani in seguito e adesso dai poliziotti del governo di Al Sisi.
Difficile però pensare questa volta che in piazza Tahrir tornerà presto, come i suoi amici: insieme a Maher e Adel stava già scontando una pena di tre anni per aver organizzato una manifestazione lo scorso anno, in violazione di una legge contestata da tutte le più grandi organizzazioni internazionali. Alaa, arrestato per lo stesso motivo a inizio 2014, è stato rilasciato dopo qualche mese, solo per essere di nuovo imprigionato a ottobre. Nei giorni scorsi, al secondo mese di sciopero della fame, è stato ricoverato in un ospedale militare in condizioni serie.
Tornare a Tahir: per cosa poi? L’attivista e poetessa Shaimaa el-Sabbagh che nel quarto anniversario della rivoluzione aveva provato a mettere fiori sulla piazza in memoria dei ragazzi uccisi, è stata freddata da un colpo sparato da un militare a volto coperto. Le immagini della sua morte, riprese da un fotografo della Reuters, hanno fatto il giro del mondo. Più di un analista le ha usate per decretare la fine di ogni speranza sulla Primavera egiziana: difficile dargli torto, anche alla luce di quello che è successo a Ahmed Douma.
Di certo c’è da constatare che questa fine è avvenuta senza reali reazioni da parte dell’Occidente: ieri un portavoce del dipartimento di Stato Usa si è detto «molto turbato » dall’accaduto. Come dargli torto? Il risultato del processo di massa che ha avuto Ahmed Douma come principale protagonista ha visto altri 229 ragazzi condannati alla stessa pena per le medesime ragioni: 39, in quanto minorenni, dovranno scontare “solo” 10 anni di carcere. Ci saranno altre proteste, forse: ma la realtà è che nessun governo è pronto a mettere in discussione le relazioni con un alleato chiave come l’Egitto.