Il lunedì nero della Borsa cinese

Il lunedì nero della Borsa cinese

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Pechino «Come il ’29? Non è il primo, non sarà l’ultimo». Con questa sintesi i commentatori descrivono sulle principali reti televisive della Repubblica Popolare il tonfo delle Borse di Shanghai (-8,5%) e Shenzhen (-7%), un arretramento in un singolo giorno come non si presentava dal 2007. Considerando il passo indietro di metà giugno, i mercati in Cina hanno bruciato, in un mese, il 30 per cento e più del loro valore. Le cattive notizie provenienti dall’Oriente hanno ovviamente coinvolto anche le piazze europee, in ribasso in media del 2%, con Piazza Affari che ha chiuso perdendo il 2,97 percento. Solo Londra ha contenuto le perdite a circa un punto percentuale. Per gli analisti internazionali, il lunedì nero di questo fine luglio è dovuto all’esaurirsi delle misure di tamponamento del governo cinese per frenare la speculazione e «stabilizzare i mercati». «La lezione che dobbiamo apprendere dallo scoppio dell’ultima bolla è questa: una volta che la fiducia si è guastata, qualunque intervento volto a spingere in su le quotazioni ha un effetto di breve durata», sostengono i ricercatori di Capital Economics.
Ieri, piccoli e grandi risparmiatori hanno osservato con panico crescente gli indici di quasi tutte le società quotate colorarsi di rosso: 2.247 compagnie hanno perso terreno, solo 77 sono riuscite a risalire la corrente. Sono addirittura 1.500 le gupiao (azioni, in cinese) cadute fino a toccare il limite massimo giornaliero del 10 percento, previsto dai regolamenti. A osservare freddamente quanto accaduto ieri, alcuni esperti non vedono altro che una «presa di beneficio» che segue due settimane di rialzi (dopo la crisi di giugno), indotti soprattutto dall’intervento statale. Insomma, per gli investitori internazionali, il gioco sulle Borse cinesi non differisce da quello su altri mercati, mentre gli investitori locali si sono limitati a seguire la politica del governo: quando sono cessati gli acquisti istituzionali, il panico si è generato in un attimo. D’altro canto, la situazione nella Repubblica Popolare cinese ha alcune particolarità che facilitano l’azione dei raider. Intanto, l’«economia socialista di mercato», dove migliaia di piccole aziende, moltissime senza valore specifico, si trovano sullo stesso piano con le grandi corporation di Stato (le uniche con capitali garantiti). Alcune società, negli ultimi anni, sono cresciute anche del cento per cento senza in realtà produrre veri profitti: e queste sono le prime, facili vittime dello tsunami finanziario. Ma anche grandi gruppi come China Unicom, la Banca delle Comunicazioni e PetroChina si sono trovate ieri nel mezzo della tempesta, con perdite che rasentavano il 10 percento.
Alla fine, il tonfo ha spinto molti governatori locali, preoccupati della sorte dei piccoli investitori, molti dei quali semplici contadini, alla chiamata alle armi: «Difendiamo la Borsa dalla speculazione», hanno intimato, mentre qualche commentatore insinuava che i guai potevano essere stati provocati da «circoli stranieri». Pechino ha seguito in silenzio lo svolgersi della giornata, forse presa in contropiede dalla consistenza delle vendite. D’altro canto, l’intervento dello Stato era stato accolto da un coro di critiche degli investitori internazionali. Tutto questo, mentre nel secondo trimestre il Pil cinese continua a correre su una media di crescita del 7 percento. Ma la Borsa, anzi le due piazze gemelle di Shanghai e Shenzhen, quest’ultima a ridosso di Hong Kong, sembrano farsi beffe delle politiche del Partito. Gli spiriti del capitalismo non conoscono costrizioni .
Paolo Salom


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