È l’ora di portare Internet nelle fabbriche. Che non vuol dire consentire agli operai di usare Facebook o Whatsapp durante l’orario di lavoro. Vuol dire ripensare le fabbriche con il digitale. E quindi ripensare il modo in cui gli oggetti vengono progettati (su un computer, ovviamente); i primi prototipi realizzati (con una stampante 3D, per esempio); la catena di montaggio monitorata in tempo reale per prevenire guasti tecnici (con dei sensori, molto spesso); i prodotti distribuiti e seguiti nel loro viaggio fino al punto vendita (con dei semplici bollini a radio frequenza, per intenderci); e i comportamenti dei consumatori analizzati in tempo reale (attraverso quello che dicono sui social network, di solito: una messe di dati che servono a capire il gradimento effettivo, eventuali criticità e quindi ricominciare il giro, progettando nuovi prodotti).
Questa rivoluzione è già iniziata e si chiama Industry 4.0 (in Italia, Fabbrica 4.0). È iniziata non a caso in Germania, paese leader in Europa della manifattura. Perché la novità è tutta qui: il digitale non serve più solo a creare prodotti e servizi digitali (siti web e applicazioni per intenderci), ma oggetti.
È il mondo dei bit che entra in quello degli atomi per renderlo più efficiente, produttivo, competitivo. Insomma, ridare slancio all’economia e alla crescita stitica di questi anni. Perciò se il capo di un grande gruppo industriale in Italia vi dicesse — come spesso in effetti dicono — “che mi importa di Internet, io faccio navi”. O auto. O rubinetti. O qualunque altra cosa. Raccontategli la storia dell’Internet dell’industria, che dopo l’Internet delle persone — il world wide web — e l’Internet delle cose — il forno che parla al frigo, per intenderci — , è arrivato per cambiare non solo il modo in cui lavoriamo, ma anche restituirci la prosperità perduta.
Non si tratta solo di slogan. Il digitale invece di rottamare le fabbriche (come qualcuno aveva frettolosamente predetto immaginando un mondo in cui chiunque ormai può farsi una fabbrica in casa o in garage), gli può dare nuova vita. L’esempio più eclatante è forse quello delle stampanti 3D, considerate all’inizio come un oggetto quasi fantascientifico e poi diventate bandiera dei makers e degli artigiani digitali che inventano nuovi prodotti. Ecco, quelle stampanti, che realizzano un oggetto aggiungendo dei materiali invece che sottraendoli (additive manufacturing), portate in fabbrica, consentono di avere dei prototipi con tempi e costi infinitamente ridotti rispetto al passato; e anche, in qualche caso, di realizzare componenti complessi finiti. Per esempio parti dei motori degli aeroplani sono già fatte così e nel 2020 General Electric prevede di realizzare 100 mila pezzi l’anno in questo modo riducendo il peso di ogni singolo aereo di oltre 400 chilogrammi (e quindi abbattendo il consumo di carburante).
Ma uno dei vantaggi più clamorosi della Fabbrica intelligente sarà l’obiettivo “zero downtime unplanned”: cioé il fatto che non accadrà più che la catena di montaggio si fermi per un guasto improvviso visto che una rete fittissima di sensori — il cui costo ormai li rende alla portata di tutti — avviserà in tempo reale i tecnici di una rottura in vista. Perché è importante? Secondo uno studio di General Electric, il 10 per cento dei voli in ritardo dipendono da guasti imprevisti, un problema che ci costa circa 8 miliardi di euro l’anno senza contare il disagio e lo stress di chi viaggia. Per i nostri figli questo problema non esisterà.
Ecco perché la storia appena cominciata è importante per il nostro futuro. In estrema sintesi, è questa. Alla Fiera di Hannover, il più grande appuntamento mondiale di tecnologia industriale, nel 2011 per la prima volta si è parlato della necessità di “computerizzare la manifattura” usando il termine Industry 4.0, diventato poi un mantra; l’anno seguente un gruppo di lavoro guidato dai massimi rappresentanti dell’industria tedesca (Bosch, Siemens, Deutsche Telekom, SAP), ha presentato un pacchetto di raccomandazioni al governo e nel 2013 sono state pubblicate le considerazioni finali.
Che in sostanza dicono questo: la prima rivoluzione industriale nasceva dall’acqua e dal vapore nei sistemi di produzione; poi è venuta l’energia elettrica; infine Internet. Ora siamo nella quarta rivoluzione industriale, ovvero in quel tempo in cui il confine fra il mondo fisico e il digitale sparisce. L’era in cui i bit governano gli atomi. E la fabbrica diventa intelligente.
Se vi sembra che tutto ciò assomigli molto alle profezie dell’economista e futurologo americano Jeremy Rifkin, non siete lontani dal vero. Siamo in quel mondo lì, ma dalle visioni siamo passati alla politica industriale: Industry 4.0 è uno dei pilastri della Germania della Merkel (200 milioni di euro il budget iniziale); negli Stati Uniti di Obama è stata attivata una Smart Manufacturing Leadership Coalition, che mette allo stesso tavolo università, centri di ricerca e grandi aziende per creare standard condivisi; e nel Regno Unito è da poco partito un progetto simile denominato, con una certa ambizione, Catapult.
E in Italia? Stiamo muovendo solo adesso i primi passi. Eppure già nel 2012, piuttosto silenziosamente, era partito il Cluster per la Fabbrica Intelligente che vede già 300 associati, quasi tutti al nord. Insomma, in qualche modo ci siamo anche noi, anche perché, come sostiene il gran capo della Direzione della Commissione Europea sul digitale, Roberto Viola, “essendo l’Italia un paese manifatturiero, questa partita non la possiamo giocare per stare a metà classifica, dobbiamo batterci per lo scudetto”. Visti i ritardi colossali che come paese abbiamo sulla diffusione della banda larga e l’adozione del digitale, l’obiettivo è perlomeno sfidante. Ma vale la pena di provarci. Secondo un recente studio degli economisti di Prometeia, l’effetto delle stampanti 3D sulle piccole imprese artigiane vale una crescita record del fatturato, stimata attorno al 15 per cento. C’è ovviamente un problema di competenze e di nuove professionalità (non a caso il Ministero dell’Istruzione ha promosso il cluster italiano): l’ingegnere meccanico digitale e l’analista di big data da qualche parte dovranno formarsi.
Ma il mondo che c’è in vista non è una fabbrica senza persone, garantisce il capo dell’ufficio studi mondiale di General Electric, Marco Annunziata. Non dovremo fare una gara con le macchine per salvare il posto di lavoro, ma imparare a lavorare con le macchine per lavorare meglio: «Per usare la metafora di un film, non stiamo andando verso Tempi Moderni di Chaplin, ma piuttosto verso Iron Man ».
Tutto ciò che è nuovo fa un pò paura perchè è difficile da capire, ma alla fine i vantaggi socio economici saranno grandi