ROMA. Sono i colori, a rivelare che oggi siamo tutti sorvegliati speciali. I colori delle divise che si vedono a ogni passo. Il blu della polizia e il vermiglio della Croce Rossa, il verde fosforescente della Protezione civile e il nero dei carabinieri, il giallo dei volontari e le chiazze disordinate delle mimetiche dei granatieri con i giubbotti antiproiettile e il mitragliatore d’assalto a tracolla. La sicurezza viene prima di tutto, oggi. Si comincia con una veloce perquisizione, «aprire le borse e sbottonare i giacconi», e poi — sotto il colonnato — il metal detector come all’aeroporto, però più veloce. Ma alla fine eccoci qui, di fronte alla porta santa, aspettando lui, papa Francesco.
Il canto Misericordia, «Misericordias Domini / in aeternum cantabo», si spande dolcemente nella piazza sotto la pioggia, sui berretti umidi dei preti filippini e sui fazzoletti di pizzo nero delle vecchiette romane, una musica celestiale sovrastata a un certo punto dal richiamo di un maresciallo ai fedeli più furbi che volevano scavalcare le transenne per saltare la fila: «Va bene che è il giorno della misericordia, però non esageriamo! ».
«Abbandonate ogni forma di paura» dice papa Francesco. Loro, quelli che oggi sono venuti fin qui, non ce l’hanno. Non hanno paura le quattro monache brasiliane che alle sei e mezzo del mattino, quando ancora è buio, camminano spedite verso via della Conciliazione. «Dobbiamo fidarci: papa Francesco ha dato l’esempio», dice suor Alice che viene da San Paolo. Non ha paura neanche Daniele, partito dal Canton Ticino con la moglie. «Noi ci siamo. Inossidabili. Abbiamo fede. E siamo fiduciosi proprio perché abbiamo fede. Se san Pietro decide che è arrivato il mio momento fa girare la chiave e via…». Non ha paura Fabrizio che arriva da Borgomanero, «Fa più paura guardare la tv. Qui si avverte subito un senso di pace…».
Eppure qualcuno ha avuto paura, come testimoniano certi spazi rimasti vuoti, le storie di chi aveva preso dieci biglietti per darli agli amici, e gli sono rimasti tutti, e i racconti dei figli e delle mamme che raccontano di essere qui anche se le loro mamme e i loro figli glielo avevano sconsigliato.
Ma oggi tutto ha funzionato come doveva, e chi è riuscito a entrare nella piazza rimane incantato dalla straordinaria precisione della liturgia, dalla dolcezza del canto “Salve Regina” e dallo spettacolare schieramento di eminenze ed eccellenze con i paramenti bianchi bordati d’oro sul grande sagrato della basilica, dalle preghiere in cinese e in swahili e dalle guardie svizzere con la divisa di gala, con il colletto plissettato, i guanti bianchi e l’elmo d’acciaio che porta impressa a sbalzo una quercia (stemma della famiglia di papa Giulio II, i Della Rovere).
Insomma, nella sua cerimonia più solenne la Chiesa mostra la sua forza tranquilla e pacifica, ed è inevitabile il confronto tra la compostezza del raduno cattolico — e della folla di Roma — e la calca impetuosa che due mesi fa ha travolto alla Mecca quei settecento pellegrini che hanno trovato la morte nel loro viaggio della vita. È inevitabile osservare l’eleganza della Misericordia cristiana, con un Papa che invita al perdono e fa recitare in arabo la preghiera ai governanti, dopo che cinquantamila cattolici si sono messi in coda tre ore prima, uno dietro l’altro e spesso cedendosi il passo con un sorriso, una di quelle file pacifiche e ordinate che sono un simbolo dell’Occidente, in una Roma che si conferma capitale della religione civile.
Sulla piazza risuona la voce, dolce e grave, di un Papa che spiega con parole limpide il significato di questo Giubileo della Misericordia: «Quanto torto si fa a Dio quando si dice che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza anteporre che invece sono perdonati dalla sua misericordia».
È un concetto delicatissimo, più di quanto non possa sembrare, perché riguarda — semplicemente — la natura stessa di Dio. Padre Dariusz, che viene da Varsavia «e conoscevo Giovanni Paolo II», mi ricorda che questa era la parola chiave di santa Faustina Kowalska, la suora polacca che scrisse della Madonna che le era apparsa per dirle che doveva parlare al mondo «della grande Misericordia di Dio e preparare il mondo alla sua seconda venuta, perché stavolta egli verrà non come salvatore misericordioso, ma come giudice giusto».
Eckhard, che ha i capelli bianchi ed è un professore in pensione partito da Wittemberg — la città dove Martin Lutero pubblicò le sue 95 tesi affiggendole sul portone della chiesa — mi spiega che per i cattolici tedeschi la misericordia è un concetto prezioso e fondamentale, «perché lo scisma cominciò proprio con il rifiuto di un Dio terribile e vendicativo, che perdonava i peccati solo grazie alle indulgenze, allora a pagamento », e sorridendo mi cita a memoria, in perfetto italiano, la ventisettesima tesi di Lutero: «Come il soldino nella cassa risuona, ecco che un’anima il purgatorio abbandona! ». Eppure lei è qui, gli obietto. «Perché sono cattolico, e perché questo è il papa della misericordia».
Nessuno aveva osato interrompere la solennità di un giorno così, con i canti gregoriani in latino e quel battaglione di cardinali e arcivescovi schierato con perfezione geometrica sul sagrato di San Pietro, fino a quando l’abbraccio tra Francesco e Benedetto ha trasformato il Giubileo della Misericordia nel Giubileo dei due Papi.
Ma quel gesto nel quale l’affetto si mescolava al rispetto ha acceso l’applauso liberatorio e corale della piazza, in una giornata che era cominciata prima dell’alba, quando mille persone erano già in fila dietro le transenne che dalla sera prima hanno sigillato tutte le strade intorno a San Pietro. C’erano il gruppo con la bandierina del Canada, le suorine emozionate e i parrocchiani ottantenni, quelli che sorridendo spiegavano «vengo stavolta perché è il mio ultimo Giubileo», quei due che come gli antichi pellegrini hanno voluto fare non l’autostrada ma la via Francigena a piedi, «una settimana per venire a Roma da Siena, ma è stato bello», l’attempato ciclista arrivato pedalando dalla Ciociaria, «mi sono alzato alle quattro e appena è finita torno indietro», i ventenni con i capelli rasta e signore con la pelliccia, però ecologica, la famigliola romana che ha preso i biglietti il giorno prima anche per il bimbo che ancora dormiva nel passeggino, beato lui. Sulla folla dei pellegrini in fila volteggiavano i gabbiani, e chissà se c’era anche quello, mandato certamente dal diavolo, che una domenica di gennaio ghermì la colomba della pace appena liberata da Francesco.
Il barista di via del Mascherino aveva aperto alle tre e mezzo, era qui già da un bel pezzo, «ma è ‘na fregatura, c’è poca gente » si lamentava. «Hanno paura dell’Is ma quelli mica so’ scemi che se mettono contro er Vaticano». E quando è finito l’Angelus, ultima fatica mattutina del Papa, la piazza rapidamente si è svuotata. Il bancarellaro che vende souvenir sacri in fondo a via di Porta Angelica guardava passare quei pellegrini che camminavano veloci verso le trattorie con aria sconsolata, e commentava sconsolato: «Oggi niente, zero assoluto». Ma il Giubileo è appena cominciato.