Una società israeliana in aiuto dell’Fbi per “violare” l’iPhone

NEW YORK Chi è il soggetto misterioso che aiuta l’Fbi a violare la privacy degli iPhone, aggirando la “non-cooperazione” di Apple? È aperta la caccia a questo terzo protagonista misterioso, nello scontro fra l’Amministrazione Obama e la più grande azienda hi-tech della Silicon Valley. Due tesi si oppongono. Il giornale israeliano
Yedioth Ahronoth è sicuro che sia l’azienda Cellebrite di Tel Aviv, specializzata nello spionaggio digitale, ad avere offerto agli inquirenti americani la chiave d’accesso all’iPhone. Il New York Times segue invece la pista degli hacker domestici: la loro collaborazione con l’Fbi sarebbe una vendetta, perché Apple non “compra” la loro benevolenza pagandone i servizi nella ricerca di bachi ed errori del suo software.
Una cosa sola sembra certa, o quasi. L’Fbi non ha più bisogno d’inseguire Apple in tribunale per convincerla a collaborare. Lo scontro con Apple diventa, con ogni probabilità, secondario. Il caso ruota intorno all’iPhone usato dai due terroristi che fecero la strage di San Bernardino, in California, nel dicembre scorso. La svolta risale a lunedì, alla vigilia di un’udienza in un tribunale della California, in cui il Dipartimento di Giustizia doveva appoggiare la richiesta dell’Fbi – cioè l’ingiunzione ad Apple di fornire una chiave o “porta d’accesso” per superare le difese del codice crittato dell’iPhone. Quel giorno improvvisamente lo stesso Dipartimento ha chiesto di cancellare l’appuntamento. La spiegazione: il Dipartimento di Giustizia, che ha alle sue dipendenze anche l’Fbi in quanto polizia giudiziaria, ha trovato «un modo di entrare nell’i-Phone di Syed Farook», l’autore della strage di San Bernardino. Senza bisogno di aiuti dai tecnici Apple.
Per mesi lo scontro tra l’Fbi e il chief executive di Apple, Tim Cook, si era basato su un presupposto condiviso: gli iPhone di nuova generazione sarebbero impenetrabili senza l’assenso del proprietario. Tra i dispositivi di sicurezza citati c’è l’auto-distruzione dei dati dopo una serie di tentativi falliti di comporre il pin. Perciò gli inquirenti sulla strage di San Bernardino avevano chiesto ad Apple di far scrivere ai suoi ingegneri un nuovo codice software, una “porta di servizio”, un accesso di emergenza per carpire i dati dell’iPhone. Cook aveva opposto un categorico rifiuto, minacciando di portare la questione di ricorso in ricorso fino alla Corte suprema. La vicenda aveva spaccato in due il paese. Il dietrofront compiuto lunedì dal Dipartimento di Giustizia, ha ribaltato tutto: non c’è più bisogno di Apple, grazie al misterioso “esperto esterno”. Israeliano o hacker, per il risultato finale non importa poi tanto. Questo non solo rilancia il dibattito sulla privacy, ma può infliggere un colpo all’immagine di Apple. L’unica cosa che fin qui nessuno aveva messo in discussione era l’impenetrabilità dei prodotti Apple. Quella di Cook era non solo una battaglia di principi ma anche di marketing per affermare di fronte alla sua clientela globale il messaggio «siete sicuri, nessuno può spiarvi finché usate prodotti Apple».
La svolta è nel documento consegnato dal Dipartimento di Giustizia alla giudice federale Sheri Pym della corte distrettuale della California, dove si cita il “soggetto esterno” che avrebbe un modo per sbloccare l’accesso all’iPhone di Syed Farook. «Dobbiamo eseguire dei test – si legge nel documento – e se si dimostra la sua efficacia non avremo più bisogno dell’assistenza di Apple». Il Dipartimento di Giustizia ha promesso aggiornamenti il 5 aprile.
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