“Pedinati e intercettati” così il Cairo ha spiato gli investigatori italiani

“Pedinati e intercettati” così il Cairo ha spiato gli investigatori italiani

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ROMA IL Regime militare che oppone il segreto e l’inviolabilità “costituzionale” della privacy delle comunicazioni per non consegnare traffici di cella e tabulati telefonici cruciali nell’indagine sugli assassini di Giulio Regeni, per otto settimane, tra il 5 febbraio e il 30 marzo, giorno e notte, ha monitorato ogni mossa, ogni spostamento e comunicazione del nostro team investigativo al Cairo. Ha costretto a pratiche carbonare il nostro personale diplomatico. Ne è stata testimone diretta Repubblica, nella seconda settimana di marzo al Cairo.
NE hanno avuto prova i tre uomini dello Sco della polizia e i tre del Ros dei carabinieri dopo pochi giorni dal loro arrivo al Cairo, alla metà di febbraio.
L’indagine, in quel momento, è alle sue primissime battute e la retorica della “cooperazione” con gli organi di polizia egiziana è al suo acme. Ci si illude che, pur nel rispetto di un accordo politico bilaterale e del diritto internazionale che impediscono al nostro team di svolgere qualsiasi attività autonoma di indagine al Cairo, ai sei uomini di Sco e Ros sia quantomeno lasciato un margine per poter informalmente coltivare colloqui con fonti o testimoni in grado di orientare la ricerca della verità che, si dice allora come oggi, «è un comune obiettivo dei due Paesi». È, appunto, un’illusione.
Il nostro team — come, a marzo, riferirà a Repubblica una qualificata fonte investigativa — individua e raggiunge telefonicamente una persona ritenuta di un qualche interesse per le indagini. Ha un’utenza cellulare egiziana e si dice disponibile a un incontro. Che non ci sarà. Dopo qualche ora dal contatto telefonico con il nostro team investigativo quella stessa persona viene convocata d’urgenza in una caserma della polizia egiziana, dove viene interrogata e le viene chiesto conto di cosa diavolo sappia e, soprattutto, di cosa diavolo vogliano sapere da lei quei ficcanaso di italiani.
È un segnale chiaro come il sole. È l’incipit truce di una cooperazione che non comincia né in quei primi giorni di febbraio, né tantomeno nelle settimane che seguono. E che costringe di fatto i sei investigatori del team agli “arresti domiciliari” nella palazzina liberty che ospita la nostra ambasciata a Garden City, quartiere residenziale sulla riva destra del Nilo.
“NIENTE MAIL NÉ CELLULARI”
A Roma si prendono delle contromisure. Mentre Palazzo Chigi scommette sulla possibilità che il Regime si convinca dell’opportunità di consegnare la “verità”, i nostri apparati investigativi sono costretti a definire routine operative rigidissime, da guerra di spie. Al team al Cairo viene vietato di utilizzare le mail, di agganciarsi a qualunque sorgente Wi-fi, in luoghi privati o aperti al pubblico, nonché il servizio di messaggistica tradizionale da smartphone e l’applicazione WhatsApp (in quel momento ancora priva di crittografia automatica dei testi). Le comunicazioni con Roma viaggiano solo attraverso “Signal”, l’applicazione correntemente utilizzata in Egitto per evitare di essere intercettati. È interrotta, come misura precauzionale, ogni eventuale comunicazione diretta tra il team e la Procura della Repubblica di Roma, che, non a caso, incontrerà e avrà modo di confrontarsi con i sei uomini del Cairo solo al momento del loro ritorno a Roma. Per le chiamate in voce vengono esclusi i cellulari e consentite solo quelle attraverso alcune linee fisse dell’Ambasciata. Che, per altro, è in una condizione di fortezza assediata e spiata.
Già, l’Ambasciata di un “Paese amico” dovrebbe essere terreno franco, perché sovrano. Ma, nella prima metà di marzo, come
constata direttamente, è un luogo dove si è costretti a contromisure particolari. E non tanto e non solo, evidentemente, per il pericolo di attentati (di cui è prova “fisica” la gimcana di jersey in cemento armato che ne rende impossibile l’accesso alle auto).
Sulla riva destra del Nilo, il villino liberty voluto da Vittorio Emanuele III nel 1927, che ospita gli uffici della nostra rappresentanza diplomatica ed è residenza del nostro ambasciatore Maurizio Massari, è, nei fatti, diviso da una linea immaginaria che sconsiglia conversazioni sul lato est dell’edificio. Quello contiguo ai palazzi del quartiere, e in particolare da un appartamento che, in linea d’aria dista meno di un centinaio di metri, dunque nel raggio di microfoni direzionali, le cui luci sono costantemente e singolarmente spente ogni volta che cala il sole e le tende tirate ogni volta che si alza. Su quel lato est della nostra ambasciata, se proprio si deve parlare, è meglio raccontarsi banalità. Altrimenti, dopo aver lasciato i cellulari a una qualche distanza, si trasloca sul lato Ovest. Quello che affaccia sul lungo Nilo e la strada a scorrimento veloce che lo percorre, il cui rumore di traffico perenne è in grado di impastare e rendere meno decifrabili all’ascolto abusivo le conversazioni.
In quelle otto settimane, non va meglio una volta in strada. La nostra diplomazia lavora coraggiosamente sul caso Regeni in condizioni impossibili. Mentre il nostro il team, quando evade dalla sua “prigione”, limita all’essenziale i propri spostamenti, a piedi o in macchina, perché regolarmente monitorati dagli apparati della sicurezza egiziana che, per altro, non provano neppure a dissimulare il “servizio”. Gli incontri, quali che siano, sono fissati con preavviso minimo. Un gioco tanto sfiancante quanto inutile, che ha il suo naturale esito nel catastrofico vertice di Roma, quando il bluff viene finalmente “visto”.


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