Produrre senza inquinare La lotta per la sopravvivenza dell’Ilva (e di Taranto)

Produrre senza inquinare La lotta per la sopravvivenza dell’Ilva (e di Taranto)

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Il futuro di Taranto è un dramma avvolto dentro due paradossi. Se l’Ilva produce poco acciaio diventa antieconomica, chiude e lascia i tarantini per strada, ma producendo di più aumenta l’inquinamento e li ammazza. Il gasdotto adriatico Tap, assai avversato dalla Regione sin dai tempi di Vendola, sembra adesso la cima cui Michele Emiliano, successore di Nichi, si aggrappa vagheggiando gas naturale (non inquinante) al posto del carbone per salvare al tempo stesso l’attività siderurgica e la salute dei pugliesi. La modernità, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra.

Ma nulla è semplice né razionale in un posto dove un vecchio sindaco dc anni Sessanta, Angelo Monfredi, confessò a chi rimproverava ai «metalmezzadri» tarantini di essersi fatti piazzare sulla spiaggia l’orrore dell’acciaieria (allora Italsider, pubblica): «Eravamo così poveri che l’avremmo fatta costruire nella piazza principale di Taranto»; dove l’arrivo dal Nord dei privati (i Riva) vent’anni fa s’è tradotto in spoliazione coloniale; dove il diritto al lavoro è stato sottratto dal diritto alla vita; e dove ancora il 17 settembre scorso, con la fabbrica in amministrazione straordinaria e gravata di risarcimenti danni, un operaio, Giacomo Campo, è morto d’una morte antica e attualissima insieme, schiacciato tra rullo e nastro, in una scena tragica che Chaplin aveva travisato ottant’anni fa nel surreale del suo Tempi Moderni .

Di tutto questo, e dunque di passato ma soprattutto futuro, viene stamattina a parlare ai pugliesi il Consiglio nazionale degli Ingegneri (al teatro Orfeo di Taranto, dalle 9.30). Già nel 2014 gli ingegneri avevano fatto un’indagine interna: l’87 per cento incolpava la pigrizia del governo, il 71 per cento pensava che l’Ilva dovesse sopravvivere ma tutelando i cittadini. Con una formula magica: la nuova tecnologia. «Si può fare, ma la politica deve decidere», dice il loro presidente nazionale, Armando Zambrano, che oggi parlerà di forni elettrici e gas naturale, insomma del superamento della vecchia cokeria. «Ai tarantini veniamo a dire la verità: sotto i 6 milioni e mezzo di tonnellate l’anno l’acciaieria non regge ma produrre così significa produrre morte», sbuffa il suo consigliere nazionale Angelo Masi, tarantino di Lizzano e quindi assai coinvolto: «C’è una gamma di soluzioni, dai forni elettrici in giù. Noi non facciamo scelte politiche, se Emiliano dice che vuole il gas si può fare ma il gas costa il doppio del carbone e sta a lui ottenere condizioni migliori».

La questione è tutta politica, naturalmente. Negli ultimi 5 anni, dal clamoroso sequestro dell’area a caldo Ilva ordinata dalla giudice Todisco sul presupposto di «attività criminose in corso», i governi hanno prodotto dieci decreti (l’ultimo è di Renzi) per sospendere i provvedimenti giudiziari e tenere l’Ilva in vita sul presupposto della «strategicità del siderurgico», derogando ai tempi sulla bonifica ambientale e nominando commissari di alto livello (da Enrico Bondi a Piero Gnudi) senza mai quadrare il cerchio, anzi. Taranto ha scoperto i « wind day », nei quali il vento di nord-ovest porta Pm10 dalla fabbrica: in quei giorni, per ordinanza sindacale, i bambini non giocano a pallone, le finestre si chiudono (già nell’agosto 2001 un operaio di Tamburi prima di morire di cancro affisse su un muro del rione un’epigrafe in cui malediceva «coloro che possono fare e nulla fanno»). Emiliano ha pubblicato la scorsa settimana una terrificante indagine epidemiologica da cui risulta un aumento di mortalità del 13 per cento per tumore al polmone e infarto del miocardio nei rioni di Tamburi e Paolo VI, i più esposti, e il 25 per cento di ricoveri tra i bambini. Il ministro Galletti ha sostenuto che l’indagine denuncia «il passato». Il terrore del governo è la disoccupazione, già cresciuta qui di 10 punti in quattro anni.

«I decreti hanno reso l’Ilva come Guantanamo: extraterritoriale», dice adesso Emiliano: «Non si può intervenire né contro l’inquinamento né per la sicurezza del lavoro (con quella di Campo le morti bianche dal ‘93 sono state 51 ndr ), mi risulta che la fabbrica perda 50 milioni al mese, ma non mi fanno entrare, non ho dati certi». Il governatore punta molto sul gas: «Mai stato contro la Tap! È un incrocio provvidenziale. Dico solo che deve approdare più a nord, per salvare la spiaggia di Melendugno. Il problema del carbone riguarda anche l’Enel: tra qualche giorno presenteremo un’altra indagine epidemiologica, su Lecce e Brindisi, con dati simili a Taranto. Io non sono un ambientalista, la mia è una proposta industriale per metterci in linea con l’Europa».

Mente tecnica del progetto di Emiliano è Barbara Valenzano, dirigente regionale e custode giudiziario dell’acciaieria nominata dalla giudice Todisco. È lei, nell’audizione al Senato, ad avere tolto il velo alla «formula dell’80 per cento». Nel decreto governativo del luglio 2014 si stabiliva che si dovesse provvedere con urgenza a un 80 per cento delle prescrizioni ambientali, senza dire quali: va da sé che nel 20 per cento rinviato sine die la fabbrica concentrasse tutti gli interventi più radicali e costosi… In una nota arrivata sul tavolo di Renzi, la Valenzano prospetta lo spostamento a Brindisi Capo Bianco del tracciato Tap, una spesa di un miliardo e 200 milioni per due linee di produzione da due milioni e mezzo di tonnellate ciascuna con possibili aggiunte di moduli, 18 mesi di tempo. «L’impianto ora ha una logica ottocentesca», dice. Piero Gnudi, che in questi anni ci ha messo faccia e energie, ha sostenuto davanti al Senato che i possibili acquirenti (Arcelor e Acciaitalia) hanno trovato «un impianto tra i più efficienti in Europa». Poi ha ammesso: «Per anni all’Ilva hanno voluto esagerare negli utili. Avessero fatto qualcosa in risanamento, non saremmo qui a discutere. A Sassuolo, la mia zona, c’era la nebbia per l’inquinamento. S’è fatto ciò che si doveva ed adesso Sassuolo è ancora leader nella ceramica ma la nebbia non c’è più. All’ingresso di Vienna c’è un’enorme acciaieria e non inquina». A Sassuolo e a Vienna, appunto.

Goffredo Buccini

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