Niente compromessi, Almaviva chiude Roma e licenzia tutti

Niente compromessi, Almaviva chiude Roma e licenzia tutti

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Licenziati. Tutti. Almaviva non ha accettato nessun compromesso con i suoi 1.666 dipendenti di Roma – da questa mattina già ex – e ha chiuso le porte anche all’ultimo tentativo di accordo al ministero dello Sviluppo. Molti di loro lavoravano per la multinazionale dei call center da dieci, quindici o più anni, tanti hanno famiglie a carico e faranno fatica a trovare un nuovo posto: ma ormai il gruppo controllato dalla famiglia Tripi guarda altrove, ha scelto una strada diversa e decisamente più remunerativa, fatta di delocalizzazioni in Romania e drastico abbassamento del costo del lavoro in Italia.

L’incontro in extremis era stato convocato mercoledì sera dalla viceministra allo Sviluppo Teresa Bellanova: la richiesta dei sindacati, forti di un referendum e di una petizione, era quella di includere anche i lavoratori di Roma nell’accordo siglato la notte del 22 dicembre con quelli di Napoli e con le segreterie confederali e di categoria. All’ultimo momento, infatti, l’intesa era stata respinta da tutti i 13 delegati della capitale, visto che il testo prevedeva il taglio temporaneo delle retribuzioni e il controllo individuale della produttività, contenuti su cui le precedenti assemblee al call center avevano posto il veto.

Le Rsu avevano chiesto ulteriori 12 ore di tempo per tornare a consultare le assemblee, ma visto il no opposto dall’azienda, il governo aveva scelto – spiega il sindacato – di non esercitare ulteriore pressione. L’indomani mattina, lo stesso 22 dicembre, quando ormai Almaviva aveva già fatto partire le lettere di licenziamento, il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda aveva messo una pietra sopra alla vicenda: «I licenziamenti sono inevitabili», aveva detto. E ieri la viceministra Bellanova ha scaricato la responsabilità sui delegati di Roma: «Le Rsu hanno ritenuto quell’accordo inaccettabile e quindi hanno determinato la perdita di lavoro di oltre 1.600 persone», ha spiegato. «Il 22 dicembre – ha aggiunto – non si è voluto prendere tempo», nonostante i segretari generali dei sindacati avessero giudicato «la nostra proposta positiva».

Ma chi non aveva voluto «prendere tempo»? Non certo le Rsu: che assicurano di aver chiesto, insieme alle segreterie sindacali, le 12 ore ulteriori per effettuare nuove assemblee, e da Almaviva e governo si era invece alzato un muro, con la richiesta di procedere immediatamente alla votazione palese e nominale dell’accordo, dopo aver separato le due procedure di Roma e Napoli.

E ieri come è andata? L’azienda ha giustificato il suo no a un compromesso in extremis barricandosi dietro presunte difficoltà rispetto alla «tenuta giuridica della procedura»: i 75 giorni di procedura erano già scaduti il 21 dicembre a mezzanotte e l’accordo è stato siglato sul filo di lana. «Non è un gioco» aveva ribadito Almaviva prima di sedersi per l’ultima volta al tavolo. Va detto che a strettissimo rigore giuridico sia il Sì dei delegati di Napoli che il No di quelli di Roma, arrivato nella notte del 22 e quindi a procedura già scaduta, non sarebbe valido.

Ma tant’è: il gruppo dei Tripi ha perfino messo in dubbio gli esiti del referendum organizzato dalla Cgil, spiegando che devono essere conteggiati anche i 601 lavoratori che non hanno votato (al seggio del 27 dicembre si erano recati 1.065 dipendenti su 1.666). E così, facendo media, i 473 No lieviterebbero fino a superare gli 833, cioè il 50% degli aventi diritto. Avrebbe vinto il No, insomma. Non si capisce però, a questo punto, perché i Sì dovrebbero rimanere invece fermi ai 590 effettivamente depositati nelle urne: non si incrementerebbero in ugual misura, se proprio si vuole tenere conto degli astenuti?

Motivazioni che non reggono, «cavilli tecnico-giuridici», secondo la Cgil e la Slc Cgil, che parlano di «scelta grave ed estremamente sbagliata». Condanna anche dal Pd: secondo Marco Miccoli è «colpa dell’azienda», che denota una «totale mancanza di responsabilità sociale». Miccoli chiede di «non addossare tutte le colpe sulle Rsu»: ma ieri la tensione fuori dal ministero era talmente alta che i delegati hanno dovuto imboccare un’uscita secondaria, temendo le aggressioni da parte di alcuni lavoratori.

Intanto i 1.666 licenziati hanno davanti a sé due anni di Naspi: i primi 3 mesi il 75% del salario medio degli ultimi 4 anni (già basso, falcidiato da cig e solidarietà), poi a scalare del 3% ogni mese.

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