Il reddito di inclusione procede a piccoli passi

Il reddito di inclusione procede a piccoli passi

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A FRONTE di un tasso di povertà assoluta molto cresciuto negli anni della crisi, a piccoli passi l’Italia si avvia ad avere finalmente un reddito minimo di garanzia. Il reddito di inclusione (Rei), definitivamente approvato per legge a marzo 2017 e confermato in questi giorni nel documento di programmazione finanziaria, da maggio dovrebbe sostituire il Sia, la misura sperimentale partita in tutti gli ambiti territoriali il settembre scorso. Per rafforzare il suo impegno, il governo ha firmato un memorandum di intesa con l’Alleanza contro la povertà relativamente ai criteri che dovranno informare i decreti attuativi e il monitoraggio della misura su tutto il territorio nazionale, in modo da garantire omogeneità dei diritti e dei doveri a prescindere dal luogo di residenza. Ha così riconosciuto all’Alleanza un ruolo di interlocuzione analogo a quello tradizionalmente riconosciuto alle parti sociali in materia di regolazione del mercato del lavoro. È un passo importante. Anche se è auspicabile che, accanto all’interlocuzione con l’Alleanza, il governo rafforzi quella con gli enti territoriali che, applicando concretamente la misura, possono vederne direttamente le criticità sul piano applicativo e dell’equità.

Alcune di queste criticità, emerse nell’applicazione del Sia, sono oggetto del memorandum. È il caso, ad esempio, del meccanismo per cui, tenendo conto solo dell’Ise e non anche del reddito effettivamente disponibile, chi possiede una abitazione di qualsiasi tipo viene attualmente escluso dal sostegno anche se l’abitazione non ha mercato e la famiglia ha un reddito bassissimo. Per ovviare a questo, il memorandum impegna il governo a utilizzare entrambe le misure, con due soglie diverse. Per non scoraggiare chi trova un lavoro, anche se a orario parziale e a basso compenso, il memorandum impegna a individuare un meccanismo per cui a ogni euro guadagnato non corrisponda un euro di sostegno tolto, almeno fino ad un certo livello. Impegna, inoltre, il governo a stanziare risorse proprie per i servizi di accompagnamento che costituiscono parte integrante del Rei, non caricandone la spesa esclusivamente sugli enti locali, con il rischio di svantaggiare proprio i più poveri di risorse.
Vi sono tuttavia altre criticità che nel memorandum non sono affrontate, o solo di passata e in modo non chiarissimo e che vanno invece chiarite in sede di decreti attuativi. Non mi riferisco al fatto che i fondi stanziati copriranno, ad andar bene, solo circa la metà dei poveri assoluti, obbligando quindi a fare delle graduatorie tra poverissimi. Mi riferisco a problemi interni al modo in cui si sta procedendo a definire il Rei. Ad esempio non è affatto chiaro se sostituirà, come logica vorrebbe, tutte le misure di sostegno economico oggi in essere e che oggi si rivolgono a platee in parte diverse e con criteri differenti. Lo stesso importo massimo del Rei, definito nel memorandum in rapporto alla pensione sociale, non tiene conto che questa si riferisce ad una persona sola, non a famiglie di due o più componenti, i cui bisogni quindi vengono parecchio sottovalutati. Non vi è, inoltre, nessuna indicazione circa lo strumento concreto che verrà utilizzato: di nuovo una carta acquisti, quindi vincolata al consumo, o invece denaro, come avviene in tutti i paesi che hanno uno strumento di sostegno al reddito per i poveri e come è auspicabile, non solo al fine di riconoscere l’autonomia decisionale dei beneficiari, ma perché spesso la prima difficoltà di chi è in povertà riguarda il pagamento dell’affitto e delle bollette, non del cibo o dei detersivi. Infine, nell’enfasi sul lavoro come unica forma di integrazione sociale, si ignora che avere una occupazione non sempre è sufficiente per uscire dalla povertà: il 4, 8% dei lavoratori vive in una famiglia in povertà assoluta.

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