La storia del nostro tempo dev’essere scritta mille volte

La storia del nostro tempo dev’essere scritta mille volte

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Fernando Butazzoni è nato a Montevideo nel 1953. E’ stato militante dell’organizzazione guerrigliera Tupamaros e già esiliato ha partecipato, come volontario internazionalista al Fronte Sandinista che riuscì a sconfiggere la dittatura dei Somoza in Nicaragua, nel 1979. La sua carriera letteraria inizia proprio in questo stesso anno con il Premio di racconti Casa de las Americas di Cuba. Nel 2014 ha ottenuto il premio nazionale di letteratura dell’Uruguay, il Bortolomé Hidalgo, per il suo monumentale romanzo storico, “Le ceneri del Condor”.  Attualmente risiede nella sua città natale. In questa intervista ci permette di avvicinarci non solo ad una interessante opera letteraria ma anche ad esperienze politiche di un recente passato.

 

Come sono state la tua infanzia e la tua gioventù?

Sono nato a Montevideo, in un’epoca in cui questa città era un paesotto, elegante ed europeo, però pur sempre un paesotto. Mio nonno materno era un verduriere e ricordo che io andavo con lui per le principali vie della capitale. Questo ricordo potrebbe essere un buon riassunto della mia infanzia, epoca piena di povertà materiale, di diversione e di avventure. E’ stato un periodo magnifico.

Quanto alla mia gioventù, il fatto è che mi arrestarono quando avevo 16 anni per aver partecipato ad una manifestazione studentesca. Botte, lacrimogeni e gattabuia. Questo mi fece vedere come funzionavano le cose. Lavoravo di giorno e studiavo di notte. Vedevo le ingiustizie ed ero un ragazzo inquieto.

 

Che letture ricordi di quegli anni?

Quando avevo sette anni mi ammalai di epatite. A casa non avevamo televisione – credo nemmeno nel resto dell’Uruguay ci fosse! – così mi regalarono riviste e libri per bambini. Ecco, così è cominciato tutto, uno dei libri della collezione Robin Hood. Sono stato precoce: mi lessi Defoe, Dickens, Hope. E poi c’era “Bomba, il ragazzo della giungla”, che erano una serie di avventure in formato libro, scritta da un tal Roy Rockwood, che in realtà era lo pseudonimo di un editore che si dedicava a scrivere libri per bambini. In questo modo imparai anche qualcosa del commercio editoriale, fin da piccolo. Però sono grato a questo editore, perché da quel momento non ho più smesso di leggere e ritengo che la lettura sia una delle migliori occupazioni che può tenere l’essere umano.

 

Passiamo alla tua militanza, prima nei Tupamaros.

Il mio ingresso nel MLN si produsse nel mezzo di un clima di grande agitazione politica in Uruguay, con repressione per le strade, prigionieri politici, oppositori perseguitati e in molti casi assassinati e un governo che ascoltava soltanto se stesso. Io ero un ragazzino e questo governo ci accusava tutti di essere una minoranza e di far parte di una cospirazione internazionale per rovesciarlo, ovviamente con aiuto e soldi stranieri. Era tutto falso, ma questo era il clima. Pacheco Areco non era tecnicamente un dittatore, era un despota, un autoritario che manipolava la Costituzione a suo gusto e piacere. Questa è l’origine della mia militanza tupamara, che si concluse il 15 marzo 1985, il giorno in cui uscirono dal carcere gli ultimi prigionieri politici della dittatura.

 

E in Nicaragua, durante la rivoluzione sandinista?

Il Nicaragua tiene a che vedere con un impegno di solidarietà più maturo e più responsabile. La tirannia nicaraguense, non solo era la più antica d’America, ma era anche la più feroce. Era qualcosa di quasi gotico: celle di isolamento, catene di tortura, gente gettata in pasto ai leoni. E sia chiaro che non è una metafora: io ho visto le fosse dei leoni a El Chipote, le ossa umane. Rovesciare questa dittatura, istituzionalizzare di nuovo questo paese e convocare elezioni generali mi sembrò un buon programma di lotta.

 

Che valore ha oggi la militanza secondo te, nel senso più ampio del termine?

Il valore della verità. Questo è uno dei grandi problemi che abbiamo avuto con la militanza. E’stato fonte di conflitti, divisioni e lotte. Manca dibattito perché manca autocritica. E’ avvenuto tra i militanti comunisti europei e avviene oggi tra i militanti della sinistra in generale in America Latina. Non ci sono dibattiti di qualità perché non c’è un’approssimazione collettiva genuina alle possibili verità. Ci sono analisi della realtà, però la verità è un’altra cosa. In molte lingue realtà e verità sono sinonimi, ma non dovrebbero esserlo. La verità dei fatti non è aristotelica. Nietzsche scrisse in una delle sue lettere che “non ci sono fatti, ma interpretazioni”. Esagerava, chiaro, però è una dichiarazione che serve a mostrare che non tutto nasce e muore in Aristotele. Come nemmeno tutto nasce e muore in Marx. La società comunista è un’utopia perché è anti-dialettica: la sua venuta implicherebbe un congelamento, la eliminazione del conflitto e degli antagonismi sociali che sono i veri motori della storia umana, proprio come insegna lo stesso Marx.

 

Managua, 19 luglio 1979: i sandinisti prendono la capitale. Cosa ricordi di quei giorni?

Ricordo lo sguardo della gente, libera e senza paura. Era emozionante vedere tutta quella gente festeggiare per le strade, ballando e cantando senza paura. La città era devastata. C’erano ancora cadaveri per le strade, barricate fumanti. Non c’era elettricità, né cibo. Furono quattro o cinque giorni da incubo, però allo stesso tempo di grandissima felicità. Nell’aria quello che si respirava era libertà. E’ un profumo inconfondibile, lo ricordo perfettamente.

 

Come giudichi la situazione attuale della regione?

La giudico molto criticamente. Il progetto delle sinistre non va da nessuna parte differente a dove andava il progetto delle destre: il capitalismo, più o meno selvaggio o civile, più o meno democratico, più o meno umanitario. In molti casi, tra l’altro, ci sono processi politici e leaders che si considerano di sinistra ma che a me ricordano molto Jorge PachecoAreco, che era di estrema destra. La sinistra latinoamericana ormai quasi non pensa. Più che idee quello che circolano sono trovate, o un anti-imperialismo piuttosto primario, tanto entusiasta quanto infantile.

 

La sinistra sembra incapace di produrre alternative reali a un capitalismo in crisi strutturale però ancora feroce…

Io ho un problema: sono sempre stato di sinistra, ma disfunzionale, atipico, un eterodosso. Nel 1990 ho criticato duramente il governo di Cuba e la piega che aveva preso la Rivoluzione, cosa che mi ha procurato una sorta di condanna di una parte della sinistra. Nel 2003, quando quelli che mi avevano condannato si scagliarono contro Fidel Castro, io ho appoggiato Cuba e questo ha fatto sì che molti intellettuali di destra mi attaccassero. Adesso, sono anni che dico che né Ortega è sandinista, né in Venezuela c’è rivoluzione. Tutti mi guardano strano. Però sì, credo che sinistra non abbia generato alternative valide al capitalismo. Fallito il progetto sovietico, fallito il progetto cubano, l’unica cosa che ci resta è ricostruire un’alternativa, però questo avrà bisogno di decenni e sarà opera delle generazioni future, che speriamo apprendano dai nostri errori.

 

Quando e perché hai cominciato a scrivere?

Non potevo fare altra cosa. Ero esiliato, in una specie di esilio doppio: esiliato a Cuba e dentro Cuba ero “esiliato” a Holguin a 800 chilometri dall’Avana, che era dove si trovavano la maggior parte dei miei compagni di lotta. Così che mi dissi: cominciamo a raccontare qualche storia. Scrissi alcuni racconti, li mandai al Premio Casa de las Americas e vinsi la lotteria! Il Premio me lo hanno dato nel 1979. Poco dopo me ne andai in Nicaragua, per l’offensiva finale nel Fronte Sud.

 

Quali consideri siano state le tue influenze culturali in generale?

La Casa de las Americas, in primo luogo. Ho avuto la fortuna di lavorare lì per un paio d’anni, agli inizi degli anni ’80. E’ stata come una borsa di alti studi culturali. Lì ho conosciuto la creme della cultura latinoamericana, ho avuto una relazione abbastanza stretta con molti dei creatori più importanti di quel tempo, da Julio Le Parc a Cortazar. E sono stato molto vicino a Fernandez Retamar, che è stato una fonte di insegnamento e diversione permanente. Inoltre ci sono stati libri, romanzi che mi hanno segnato ed il balletto. Ero e sono un grande estimatore del balletto, e dalla danza classica ho imparato una cosa semplice e contundente che mi è servito molto per scrivere: la bellezza è una conseguenza del buon funzionamento di un determinato meccanismo artistico. Non è la causa, ma la conseguenza. Con la letteratura è lo stesso: la poesia di Borges è bella perché funziona alla perfezione. Lo stesso succede con “Cent’anni di solitudine” o con “Il vecchio e il mare”. D’altra parte sono anche un ammiratore profondo dei fondatori di quello che si è poi chiamato “Nuovo giornalismo”. Questi fondatori sono stati: Gabriel Garcia Marquez, Jorge Vasetti e Carlos Maria Gutierrez. Gli altri, Capote per esempio, sono venuti dopo. I veri inventori di questo incrocio tra reportage giornalistico e finzione narrativa sono stati quei tre.

 

Come nascono e prendono corpo le tue narrazioni?

Fondamentalmente, tutto quello che succede nella mia vita tra le sette del mattino e le cinque del pomeriggio è lavoro, anche quando ho qualche riunione o vado a passeggiare con le mie nipoti più grandi, o converso con Lucy, mia moglie, di questo e di quello. Questo vuol dire che tutto quello che accade, in un modo o nell’altro, finisce in “pentola”, e fa parte della minestra. Dopo viene la scrittura che, per fortuna, è un processo che non so bene come si produca. Non ho mai voluto smontare questo apparato, per paura di non saperlo rimontare.

 

Quali sono gli elementi ai quali dai maggior importanza nella tua scrittura?

Tutto è relazionato con tutto. Quando una storia non funziona è perché c’è qualcosa che non si incastra bene nel meccanismo. La storia e i personaggi sono quasi due facce della stessa medaglia: non esiste una senza gli altri. Poi c’è il tono, la tavolozza con cui si lavora. E l’approccio, che per me è molto importante. Per dirla con linguaggio cinematografico: dove si deve mettere la telecamera? In accordo a questo, nel quadro compariranno determinate cose e altre non si vedranno. In una buona storia, quasi nulla si descrive. E’ lì ma non si racconta. E’ la teoria dell’iceberg del vecchio Hemingway.

Bisogna scegliere le parole con attenzione, perché ogni parola è sacra e possiede un valore straordinario.

 

Parliamo di Las Cenizas del Cóndor (Le Ceneri del Condor). Come nasce l’idea del libro?

Esattamente come lo dico nel libro. Conducevo e dirigevo uno dei programmi giornalistici più importanti di quel momento in Uruguay. Diciamo che ero una specie di “stellina” del giornalismo. Un giorno, un ragazzo mi chiese aiuto. Mi disse che pensava di essere figlio di scomparsi. Il mio solo merito letterario è stato giornalistico: cercare e tirare il bandolo con pazienza fino a sbrogliare queste matasse, che erano due. Perché il ragazzo che mi aveva chiesto aiuto alla fine non era quello che credeva di essere. Tutto era diverso o ancora più ingarbugliato. Più incredibile e più doloroso.

 

Dieci anni di lavoro…

Sì perché le mie fonti si presero il loro tempo prima di accettarmi, per confidare in me e raccontarmi le loro storie. Poi mi mancava corroborare se quello che mi avevano raccontato era vero, e per farlo dovevo rivolgermi ad un’altra fonte, e poi a un’altra e a un’altra ancora. E la ciliegina sulla torta è stato incastrare il personaggio di Katia Liejman in questa storia. Non si è trattato solo di rintracciarla ma anche di darle plausibilità, perché, a priori, anche a me la storia di Katia, un’analista del KGB scomparsa a Buenos Aires, pareva poco realistica. E invece non lo era.

 

In questo libro ci presenti un’intera epoca, quella del Plan Cóndor, le connessioni tra dittature. Perché è importante ricostruire questo periodo così duro e violento?

La memoria, la cronaca del nostro tempo deve essere scritta una e mille volte. Deve essere rivista e scritta di nuovo. Ogni giorno compaiono nuovi documenti e questo non solo getta luce su alcune cose ma cambia anche l’approccio. Diciamo che fino a poco fa eravamo illuminati dalla realtà dei fatti. Adesso possiamo attraversare questa realtà con la luce della verità.

 

Un libro che è un romanzo e al tempo stesso analisi e inchiesta dettagliata e che mantiene una tensione costante.

Ritorniamo ai tre mostri meravigliosi: Garcia Marquez, Masetti e Gutierrez. Il giornalismo d’inchiesta è o può arrivare a essere letteratura e questo offre certe possibilità per narrare. Già nel 1984, quando ultima la prima versione di “El tigre y la neve”, si vedeva bene questa idea. Il giornalista e lo scrittore di finzione sono una sola persona. Mi hanno chiesto: ma questa è finzione? E’ un reportage? E la risposta che mi viene da dare è questa: che importa? La etichetta di romanzo mi piace, però le etichette in generale servono a poco, eccetto che per non confondersi di medicina.

 

Ti sembra che ci sia un oblio selettivo di quella tappa? In che misura c’è stata giustizia?

L’oblio selettivo è una tendenza naturale delle società e delle persone. Nel nostro caso questa tendenza è stata rafforzata da una predica continua, per anni, destinata a infondere paura. In ogni caso, le società non sono solo i governi, né solo i militari, né solo i partiti politici. Sono molteplici i fattori che interagiscono. In Uruguay abbiamo svolto due plebisciti per derogare leggi che garantivano impunità ai violatori di diritti umani. Entrambe le volte abbiamo perso. La giustizia è scesa con il contagocce, così come la riconciliazione. Ci sono professionisti dell’odio dappertutto ed essi non vogliono nessuna giustizia né vogliono nessuna riconciliazione. Però la mancanza di progressi in materia di giustizia è responsabilità di tutta la società uruguaiana. E’ molto comodo dar la colpa “ai militari”, quando in realtà tutti, in un modo o nell’altro, dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, per azione, omissione, indolenza o vigliaccheria.

 

In un mondo in cui l’identità sembra essere in una crisi profonda, come riscattare e ridefinire questo concetto? Cos’è per te l’identità?

L’identità è la capacità e la possibilità di essere cosciente di chi sono, mi trovi dove mi trovi. E’ un concetto intimamente relazionato con la libertà. Essere libero è avere identità. E avere identità basilarmente è essere libero. Mi sembrano ogni giorno più irrazionali i tentativi di limitare le libertà individuali delle persone. Questa è la mia identità: la libertà.

 

Che sentimenti provocano in te i conflitti armati attuali che sembrano mettere l’accento sulla distruzione delle culture e l’annichilamento delle minoranze?

Bene, la mia risposta sarà necessariamente disfunzionale. Un esempio è il conflitto arabo-israeliano. E’ vero che i palestinesi hanno pieno diritto di costruire uno stato. Allo stesso tempo è vero che gli ebrei sono una minoranza in Medio Oriente e che da decenni affrontano guerre di maggior o minor intensità il cui obiettivo dichiarato è cancellarli dalla mappa. Personalmente penso che la minoranza ebrea abbia diritto ad esistere e che non possiamo permettere che la cultura ebraica sia perseguitata. I popoli, come il palestinese o l’israeliano o il siriano o l’iracheno, sono quelli che soffrono le smanie egemoniche. Difendere le minoranze è difendere a cappa e spada tutti i diversi, non solamente quelli del mio lato.

 

Che ruolo può giocare la cultura nella soluzione dei conflitti?

Credo che può soprattutto svolgere un ruolo nella prevenzione dei conflitti. La cultura è relazione. Avvicina, unisce. L’ignoranza, l’isolamento, la mancanza di legali, imbruttisce e rende la gente violenta e preoccupata. La cultura è utile nella misura in cui ci fa pensare, cosa assai rara oggigiorno. Basta vedere i presidenti che abbiamo: Trump, Putin, Rajoy, Maduro, Ortega… sembra il cast per “Il Pianeta delle Scimmie”. Questa lista, che si potrebbe allungare, è composta da presidenti che in ogni caso sono stati eletti dalla cittadinanza. Non è che parli molto bene di noi, elettori e cittadini.

Fernando Butazzoni – Globalrights.info



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