G7, Trump contro l’Europa

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La Casa bianca travolta dagli scandali vuole salvare la propria narrativa su clima e migrazioni

A sentire le parole del primo ministro italiano Gentiloni nella conferenza stampa di chiusura del G7 di Taormina, la volontà di confronto ha prevalso sulle differenze: «Il vertice ha funzionato alla grande».

Così non è: per il fronte europeo il summit è stato un fallimento. Il presidente Trump ha affossato ogni possibile compromesso – eccezion fatta per il commercio – su migranti e clima, calpestando le istanze di un’Europa marginalizzata.

Molto più onesta è la cancelliera tedesca Merkel (che come il tycoon ha disertato la conferenza stampa finale): «Estremamente problematico, per non dire molto insoddisfacente».

L’atteggiamento del nuovo presidente statunitense è stato di chiusura palese, quando non di malcelato fastidio: meglio i selfie con i soldati Usa di stanza a Sigonella, dove si è spostato ieri nel primo pomeriggio senza ascoltare Gentiloni.

Una scelta non certo frutto del caso, ma delle rinnovate ambizioni belliche tra Mediterraneo e Asia. A Taormina non ha rilasciato dichiarazioni, ma lo ha fatto alla base aerea Usa dove ha definito i lavori del G7 «molto costruttivi, produttivi».

È con i militari statunitensi che ha tracciato le linee della narrativa trumpiana: «Noi vogliamo la pace attraverso la forza. Avremo molta forza, ma anche molta pace. L’America sta diventando più forte».

Pugno duro che ricalca il suo America First, dove spazio per i migranti non c’è (Washington non ha accettato alcuna quota di redistribuzione dei richiedenti asilo) né per la gestione dei cambiamenti climatici, dove la chiusura è stata nei fatti totale.

Tutto rinviato: deciderò tra sette giorni, il messaggio che il tycoon ha lasciato a Taormina, sfida alle pressioni della perdente Europa. Lo scrive su Twitter: «Prenderò la mia decisione finale sull’accordo di Parigi la prossima settimana».

Confermano gli altri sei: «Gli Usa sono nel processo di revisione delle loro politiche sul cambiamento climatico e non sono nelle condizioni di unirsi su questo – si legge nello striminzito comunicato finale – Prendendone atto i leader di Canada, Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Giappone riaffermano il loro forte impegno per una rapida applicazione dell’accordo di Parigi».

Anche qui ad alzare la voce è Merkel che a margine del vertice ha ribadito la posizione europea e l’intenzione di «non fare alcun compromesso su questo punto», mentre Gentiloni ha optato per toni più speranzosi: «Gli abbiamo fornito un set di argomenti formidabili per decidere nella direzione giusta». Ma, ammette, «non ho la più pallida idea di quando gli Usa decideranno sul clima».

Il punto è esistenziale per il discorso trumpiano e la conseguente sua sottocultura: l’attuale presidente ha vinto le elezioni con parole d’ordine precise, che passano per il ritorno al carbone, la cancellazione dei limiti alle emissioni voluti dal predecessore Obama, porte chiuse per migranti e aziende straniere (punto ovviamente molto più malleabile e direttamente dipendente dagli interessi economici americani, con Trump che sì punta il dito contro le auto tedesche, ma poi apre alla Cina e agli investimenti sauditi nel settore infrastrutturale interno).

La Casa bianca di oggi – sotto attacco negli Stati uniti per la valanga inarrestabile di scandali e per l’incapacità a legiferare senza che i decreti vengano bocciati dai giudici – non può perdere altri pezzi dell’immagine che ha costruito a beneficio dei propri sostenitori. A pagarne le spese saranno il clima e i flussi migratori.

Su questo secondo punto il cosiddetto asse Berlino-Roma ha perso, calpestato dalla predilezione per i muri e il «diritto sovrano a controllare i confini», seppure il presidente francese Macron abbia ventilato una revisione dell’accordo di Dublino e il comunicato finale parli di condivisione della «responsabilità nella gestione dei flussi e nella protezione dei rifugiati e dei migranti».

Ma se questa presunta protezione passa, come sottolinea il testo, per partnership con i paesi di partenza – sconvolti da guerre civili, repressione di Stato e instabilità economica – ecco che l’impalcatura crolla come un castello di carte.

Trump ha prevalso in un summit, questo sì, obsoleto perché lascia fuori potenze mondiali che incidono pesantemente sugli equilibri globali e sulle questioni cardine del vertice. Clima, immigrazione, guerra al terrorismo, commercio, di questo i sette leader discutono con Cina e Russia convitati di pietra.

Unico punto su cui gli Stati uniti hanno “ceduto” è stato il commercio. Mercati aperti e lotta al protezionismo sono le parole chiave del comunicato finale sulla questione: «Ci impegniamo ad adottare le politiche appropriate in modo che tutte le aziende e tutti i cittadini possano ottenere il massimo dalle opportunità offerte dall’economia globale».

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