CALAIS. Dormono lungo l’autostrada, nascosti in un bosco o sui marciapiedi della città: ma mai in più di quattro o cinque altrimenti, anche nel cuore della notte, arrivano i gendarmi a disperderli con i lacrimogeni. I nuovi migranti di Calais vivono come fuggiaschi, affamati, in condizioni d’igiene disastrose. Prima dello sgombero della “Jungle”, la più grande bidonville d’Europa tollerata dalle autorità, nella Lampedusa del Nord approdavano soprattutto iracheni e siriani con l’ obiettivo di attraversare la Manica. Oggi sono per lo più somali, etiopi, eritrei e sud-sudanesi. «Sta nascendo un’infinità di nuove piccole “giungle”, più nascoste e diffuse di quella distrutta nell’ottobre scorso, tutte senz’acqua né elettricità né toilette. Con la bella stagione, continuano ad arrivare persone ma qui non c’è una sola struttura per accoglierle», dice il bretone Loan Torondel, 20 anni e attivista dell’Auberge des migrants, un’associazione di volontari che cucina e distribuisce il cibo ai rifugiati. Si calcola che in pochi mesi ne sia già tornato più di un migliaio.
Incontro Torondel in un prefabbricato appena fuori dal porto, dove sono state allestite le cucine della sua ong per metà francese e metà britannica. Mi racconta delle difficoltà che incontrano, perché osteggiati dall’amministrazione locale: «La sindaca, Natacha Bouchard, ci aveva perfino impedito di offrire i pasti ai migranti. Ci siamo dovuti rivolgere al Tribunale di Lilla che ci ha dato ragione. Ma possiamo farlo soltanto in un parcheggio abbandonato nella zona industriale. Se proviamo a farlo altrove siamo subito fermati dalle forze dell’ordine». Ora, assieme a un piatto di pollo e riso, a questi disgraziati L’Auberge des migrants fornisce anche vestiti caldi e coperte, perché all’alba di ieri c’erano solo 10 gradi sulle coste della Normandia. «Ma non diamo più le tende perché quando le trovano i poliziotti le sequestrano e le distruggono a coltellate».
Dopo le denunce delle ong, diversi politici, intellettuali e personalità dello spettacolo hanno lanciato un appello al presidente Macron. Tra questi, lo storico Benjamin Stora e Françoise Sivignon, direttrice di Médecins du Monde. «È indegno lasciare in mezzo a una strada questi uomini con le loro famiglie nella speranza che ciò dissuada gli altri dal raggiungerli», recitava l’ultima lettera scritta dall’ex deputato ambientalista Daniel Cohn-Bendit e dal regista Romain Goupil a Macron, pubblicata su Le Monde. Il 14 giugno, dopo una visita a Calais anche il Difensore dei diritti umani, Jacques Toubon, ha denunciato «la gravissima mancanza dei diritti fondamentali per i migranti e le condizioni di vita inumane, nonché le molestie da parte delle forze dell’ordine a chi cerca di aiutarli».
Ma Macron sembra sordo a questi richiami. Anzi, il suo nuovo ministro dell’Interno, l’ex socialista Gérard Collomb, ha appena ribadito che non verranno costruite strutture per accogliere migranti, lamentando il fatto che dall’inizio dell’anno «4425 persone hanno tentato di attraversare la Manica aggrappandosi a un camion e che 5111 sono illegalmente salite su un traghetto prima di venir fermate». Come Macron, anche Collomb fa distinzione tra chi fugge da una guerra o una persecuzione e per il quale vanno abbreviate le pratiche per l’ottenimento del permesso d’asilo; e chi invece scappa per altri motivi, e che andrebbe a suo parere espulso al più presto. Del resto, anche il “piano migranti” presentato dal premier Edouard Philippe, pur volendo «garantire il diritto d’asilo e meglio gestire il flusso migratorio», ignora del tutto l’emergenza Calais, chiudendo ermeticamente le frontiere con l’Italia, dove il 57% dei migranti che s’accumula è francofono.
Ed eccola, la vecchia “jungle”: un’ampia e ormai deserta radura butterata di crateri e pattugliata dai gendarmi, che il comune vorrebbe trasformare in un parco giochi. Poco prima che le autorità la sgomberassero, i suoi 10mila ospiti ci avevano aperto scuole, luoghi di culto e piccoli ristoranti. Non lontano passa l’autostrada A16, Calais-Dunkerque. Ogni sera, un suo tratto è preso d’assalto dai migranti, che per arrivare nell’Eldorado britannico, distante solo 35 chilometri, cercano di abbordare le migliaia di camion che s’ingolfano nel tunnel che collega la Francia all’Inghilterra. Quando ci riescono, la notte dànno fuoco a vecchi tronchi che trasportano sulla carreggiata per far frenare i tir e per poterli abbordare. Il 24 giugno, nel tentativo di evitare un falò visto all’ultimo istante, un autista polacco ha sbandato col camion ed è morto.
Ed è sull’A16 che incontro tre smagriti sud-sudanesi, fuggiti quattro mesi fa dal loro Paese dilaniato dai massacri etnici e dalla carestia. Mi dicono che arrivano da Malakal, città del nord-est attaccata e rasa al suolo dall’esercito. «Per venire qui abbiamo viaggiato in condizioni disumane: siamo stati giorni senza cibo né acqua, schiavizzati, malmenati e alla fine anche derubati dai nostri traghettatori. Abbiamo sopportato l’indicibile, e non sarà qualche notte all’addiaccio e qualche pranzo in meno che ci farà desistere». Quando gli dico che dovrà tornare forse sui suoi passi, scoppia a ridere. Poi mi dice: «Solo da morto».
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