Rischio Italia, crescono il potere dei mercati e la solitudine dello Stato

Rischio Italia, crescono il potere dei mercati e la solitudine dello Stato

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Borsa di Milano a picco (chiusura a -2,65%), interessi sui titoli di Stato mai così alti da cinque anni a questa parte (Btp a 2 anni il più colpito, con un tasso che passa dallo 0,94 al 2,55%, +150%).

Dietro la parola spread (differenza di rendimento tra titoli di Stato italiani e tedeschi), non c’è altro che il prezzo del «rischio Italia».

In queste ore molti si chiedono se sia l’instabilità politica a far schizzare in alto lo spread, ovvero se lo spread costituisca una leva esterna per facilitare la formazione del nuovo governo. Interrogativi inutili: è come chiedersi se sia nato prima l’uovo o prima la gallina. Piuttosto, sarebbe il caso di chiederci se uno Stato come quello italiano possa fallire. Risposta? In teoria sì.

Le vendite di questi giorni segnalano una caduta della fiducia degli investitori nel nostro Paese, nella sua capacità di rimborsare i propri debiti (c’è anche attività meramente speculativa, comunque).

Parliamo di grandi e piccoli investitori, se è vero che nella giornata di ieri le cessioni hanno riguardato anche titoli a brevissima scadenza (Bot semestrali). Fuga degli investitori, caduta del valore delle obbligazioni, tassi di interesse sempre più elevati per attrarre finanziatori. Una spirale che potrebbe avere conseguenze tragiche, a certi livelli.

Si potrebbe obiettare: ma lo Stato non è un’azienda privata, men che meno una famiglia. Ed è vero. Nel nostro caso (come nel caso di tutti i Paesi della zona euro), tuttavia, c’è un grosso «ma»: un eventuale salvataggio non dipenderebbe da noi stessi ma dalle istituzioni europee, come il caso greco ci ha insegnato. Ad un prezzo che, inevitabilmente, sarebbe salatissimo.

Con l’adesione alla moneta unica (invero, il cordone ombelicale tra Tesoro e Banca d’Italia era stato reciso già all’alba degli anni Ottanta), i Paesi dell’eurozona non dispongono degli strumenti per puntellare il proprio debito e difendersi efficacemente da eventuali attacchi speculativi. È la Bce che, eventualmente, può mettere in campo alcune azioni (dette anche «non convenzionali») qualora un Stato membro venisse a trovarsi in una situazione di «difficoltà macroeconomica grave e conclamata».

Tra queste azioni c’è anche l’acquisto diretto da parte della Bce di titoli di Stato a breve termine (col Quantitative easing gli acquisti avvengono sul mercato secondario, dalle banche). È il cosiddetto «Programma Omt» (Outright monetary transactions), annunciato da Draghi nel 2012 ma mai attivato fino ad oggi, per nessun Paese. In sostanza, un classico programma di assistenza finanziaria subordinato all’adozione, da parte del beneficiario, di straordinarie, per non dire draconiane, misure di risanamento dei propri conti pubblici. Si scrive «aiuto ad un Paese in difficoltà», si legge «commissariamento da parte della Troika».

Forse, però, siamo andati troppo avanti. Per adesso, accontentiamoci di analizzare una situazione nella quale, di giorno in giorno, cresce il peso del «servizio del debito» sulla spesa pubblica del Paese. Soldi sottratti ai cittadini che finiscono nelle mani di chi compra il nostro debito (il 40% sono investitori stranieri, solo il 5% famiglie e imprese italiane). Di che cifre parliamo? 100 punti base (1 punto percentuale) in più significano una maggiore spesa per interessi di circa 7 miliardi all’anno (nel 2017 la spesa è stata di 68 miliardi).

C’è poi il capitolo banche, l’altra faccia della crisi in atto. Con circa 300 miliardi di titoli di Stato nei loro bilanci, in questi giorni stanno subendo pesantemente gli effetti delle tensioni sul debito cosiddetto «sovrano». Una forte svalutazione di questi titoli, infatti, aprirebbe una voragine nei loro conti, già gravati da oltre 270 miliardi lordi (non tenendo conto delle svalutazioni) di crediti deteriorati. Eventualità temuta dagli investitori, che nella seduta di ieri hanno affossato i listini degli istituti di credito (-6%, maglia nera Banco Bpm con un -6,73%).

Il governo giallo-verde non si è fatto perché non offriva sufficienti garanzie sulla collocazione europea del nostro Paese. Almeno questa la motivazione ufficiale.

Il «problema Europa» però rimane. Oltre all’insostenibilità degli attuali vincoli di finanza pubblica ed al deficit di democrazia nei processi decisionali, c’è l’impotenza (e la solitudine) degli Stati di fronte allo strapotere dei mercati e della finanza. Un mondo rovesciato, benzina nel motore dei populisti.

FONTE: Luigi Pandolfi, IL MANIFESTO



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