FIUMEFREDDO ( CATANIA). Da rifugiato a rifugiato. Attorno al tavolo di una disadorna cucina, davanti a un vassoio di biscotti ai datteri fatti in casa.
Khaled sorride, guarda la piccola Haya che sguscia inquieta dalle braccia della mamma, e dice a Yaser: «La salvezza e il futuro dei nostri figli viene prima di tutto. Sarà durissima ma ce la farete a ricominciare».
Fiumefreddo di Sicilia, paesino a metà tra l’Etna e il mare. È qui, in un appartamentino al primo piano di uno Sprar (centro di seconda accoglienza) che da tre mesi vivono Yaser, 40 anni, sua moglie Sumeer, 39, e i loro quattro figli, Botul, 15 anni, il capo già coperto da un velo bianco lezioso, Amar, 12 anni, Heba, quasi 10, e la piccola Haya di 18 mesi. La cucciola di casa è nata in Giordania nel campo in cui, per sette anni, questa famiglia siriana in fuga dalla guerra che ha distrutto la loro vita, ha aspettato che un corridoio umanitario li portasse in qualche parte del mondo per ricominciare una nuova vita.
Oggi alla loro tavola c’è un ospite d’eccezione, Khaled Hosseini, lo scrittore afgano, ambasciatore dell’Unhcr, che al dramma dei rifugiati ha deciso di dedicare il suo nuovo libro “Sea prayer” in uscita per le edizioni Sem il 30 agosto nel terzo anniversario della morte di Alan Kurdi, il bimbo siriano di 3 anni la cui foto (riverso su una spiaggia turca) è diventata simbolo di una tragedia che purtroppo si rinnova.
«Quando accade di nuovo, quando i morti diventano 100, 200, 1000, si crea una sorta di tragica assuefazione. Non ho sentito parole di compassione per questi altri bambini che mi hanno fatto rivivere un giorno che non dimenticherò mai, quello della morte di Alan. Da padre di due figli non riesco neanche ad immaginare cosa possa avere provato quel padre davanti al corpicino di Alan. E poi davanti alla sua foto. Per questo ho deciso di mantenere viva quella memoria, per aiutare lui e le migliaia di migranti come lui che, per disperazione, mettono le persone che più amano al mondo su quelle barche. Per dire al mondo che è atroce, che non è accettabile, che si deve trovare la soluzione perché questo non accada più”.
Quale può essere la soluzione? L’Europa ma anche gli Stati Uniti rispondono blindando i confini.
«L’imperativo morale deve essere salvare la gente in mare e creare canali sicuri e legali per mettere in salvo i rifugiati. È vero, gli Stati chiudono i confini, il clima non è quello giusto per creare compassione e solidarietà. Negli Stati Uniti però l’opinione pubblica si è ribellata. Non in Europa. Le persone, secondo me, sono poco informate, la specie umana è insensibile ai numeri e alle statistiche, l’empatia si fonda sulla conoscenza. Io ho deciso di raccontare la storia di un padre che parla al figlio addormentato sulle sue gambe durante la traversata su un gommone. E un padre è un padre, in qualsiasi continente vive. Oggi lo storytelling è fondamentale, è un dovere civile e tutto il ricavato di questo libro andrà all’Unhcr e alla fondazione Hosseini per progetti in favore dei rifugiati».
L’intolleranza, le campagne di odio, il razzismo stanno facendo breccia in tanti paesi, sdoganando parole e comportamenti impensabili.
Cosa sta succedendo?
«Vede, oggi io sono qui in casa di questa famiglia siriana di rifugiati. Ho rivissuto il loro dramma, mi hanno raccontato che la loro vita èimprovvisamente cambiata sotto il peso delle bombe, il peso della decisione di scappare, il rischio della fuga, l’attesa di un Paese che li accogliesse. E ora qui, in una città dove li hanno accolti con indifferenza, dove non parlano con nessuno, dove non è facile integrarsi, imparare la lingua, la difficoltà di ricominciare tutto daccapo. “Porte aperte”, l’iniziativa dell’Unhcr che apre alla gente del posto le case dei rifugiati, è una buona occasione per conoscere. C’è un grosso gap in Europa tra quello che la gente pensa e la verità».
Qual è la verità che l’Europa non riesce a vedere?
«È solo la disperazione, l’assoluta mancanza di alternative che costringe un padre e una madre a mettere i propri figli nelle mani dei trafficanti, a farli salire su una barca sapendo che il rischio di morire è altissimo. È l’ultima chance che hanno. Non vengono qui per vivere nel lusso europeo o per rubare il lavoro. Vengono qui per dare un futuro ai loro figli. Per me, quando la mia famiglia è fuggita dall’Afghanistan, è stato più semplice. I rifugiati non vogliono essere un peso, tutti quelli che ho incontrato vorrebbero essere a casa loro. Lo dico con una magnifica poesia di Warsan Shire. Si chiama “Home”.
E dice: “Nessuno lascia casa fino a quando non diventa la bocca di uno squalo, nessuno vuole essere violentato, compatito”.
L’incontro di oggi con questa famiglia me lo conferma. Sarà dura integrarsi in un Paese così diverso, trovare un lavoro, instaurare rapporti sociali. Per una famiglia che in Siria era felice e aveva tutto quel che gli bastava.
Ma qui sono al sicuro e questa è la strada giusta. Buona vita Yaser, buona vita davvero».
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