Diciotto anni dopo, un altro mondo è sempre possibile

Diciotto anni dopo, un altro mondo è sempre possibile

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Alla fine degli anni Novanta, a cavallo del cambio di secolo, prese corpo, forma e forza il grande movimento altermondialista, comunemente mistificato dai media mainstream sotto l’etichetta “no global”. Etichetta, a dire il vero, pure acriticamente accettata da qualche periferia del movimento meno consapevole, in una specie di sovranismo ante litteram.  Era il movimento nato nel 1998 e decollato l’anno successivo con le mobilitazioni contro l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) a Seattle.
Si trattò di una prima battaglia vincente. Un piccolo, micidiale, cuneo era stato ficcato negli ingranaggi della globalizzazione economico-finanziaria e della liberalizzazione commerciale, dunque nel potere e nei profitti delle grandi corporation. Un intollerabile inceppamento di una strategia da tempo lucidamente tesa a un nuovo ordine globale, dopo che quello bipolare precedente, stabilizzato dalla Guerra fredda e dalla divisione del mondo in blocchi, era venuto meno, franando su sé stesso. Un ordine spesso tragico, ma anche in alcuni tratti caratterizzato da rivoluzioni emancipative di popoli schiacciati dal colonialismo e da sistemi economici disumani, nonché, nella seconda metà del secolo, pure in Occidente, da grandi conquiste sociali, da un forte progresso delle forze del lavoro e da un significativo avanzamento di istanze democratiche e di libertà civili.
La seconda potenza mondiale
Le vicende del luglio 2001 a Genova sono state la sanguinosa dimostrazione di come quel governo sovranazionale non possa tollerare interferenze e di come conservi memoria – lui sì – e timore dei processi di emancipazione, conquiste e progressi avvenuti nel secolo scorso.
In quelle giornate genovesi si sono confrontate senza mediazioni due visioni del mondo.
È in quel momento che le ragioni della forza iniziano a prevalere sulla forza della ragione: una “macelleria messicana” a esecuzione italiana e regia internazionale, una inequivocabile manifestazione dell’avvenuto – e costitutivo – divorzio tra democrazia e processi di globalizzazione, con gli orrori di Bolzaneto, le torture alla scuola Diaz e l’evidenza di apparati di polizia intrisi di cultura fascista e di omertà mafiosa.
Tuttavia, ancora due anni dopo quel composito movimento globale dimostrò una vitalità e dimensione sorprendenti: il 15 febbraio 2003 in ogni angolo del pianeta, contemporaneamente, si manifestò “Contro la guerra, senza se e senza ma”. 110 (Centodieci) milioni di persone, un evento unico da sempre. Il giorno successivo il “New York Times” definì quel movimento «la seconda potenza mondiale».
Avevamo ragione
Gli avvenimenti mondiali, con la crisi scoppiata nel 2007, hanno dimostrato la fondatezza dell’analisi di quel movimento e, all’inverso, il fallimento di una globalizzazione fondata sulla libertà assoluta delle corporation e della grande finanza. Così come gli studi scientifici registrano con evidenza crescente quanto fossero centrati e realistici gli allarmi sul degrado del pianeta, sui cambiamenti climatici e sui loro drammatici effetti, già presenti e futuri.
Insomma, quel movimento diceva e spiegava che i grandi mali che stanno deteriorando le condizioni di vita e compromettendo il futuro sono tutti intrecciati tra loro, proprio come nel nostro piccolo continuiamo a scrivere e documentare noi con l’annuale Rapporto sui diritti globali: diseguaglianze, guerre, migrazioni, olocausto ambientale, diritti umani. Verità confermate dai fatti nel quindicennio successivo, ma ancora negate e avversate. Prenderne atto, infatti, comporterebbe il mettere radicalmente in discussione il sistema e l’attuale modello, in ogni sua articolazione.
Così come il trauma dell’11 settembre 2001 non ha portato a resipiscenze, ma anzi è stato strumentalizzato per destabilizzare il mondo e per annichilire quel movimento antisistema che voleva cambiare il mondo senza prendere il potere, così la crisi economica in corso dal 2007 invece di portare a un drastico ridimensionamento del potere della finanza speculativa che l’ha provocata, sta traducendosi in un’accelerazione dei processi tecnocratici, da un lato, e populistici, dall’altro, che stanno modificando in radice in senso autoritario e antidemocratico le istituzioni rappresentative, a partire dal quadro europeo.
Riscoprire passioni e utopie
Quel movimento non esiste più, pur se esistono encomiabili tentativi di tenerne in vita almeno intuizioni e tensioni. La memoria, difatti, è premessa indispensabile per il cambiamento del presente. Anche – o forse soprattutto – quando è memoria di sconfitta e di sconfitti.
Del “movimento dei movimenti” oggi non si ricorda né l’origine, né la fine: nell’anniversario dell’uccisione di Carlo Giuliani solo una piccola e orgogliosa pattuglia di giovani ed ex giovani continua a ritrovarsi con i genitori di Carlo in quella piazza Alimonda, alcuni con ancora sul corpo le cicatrici di quei giorni di infamia istituzionale.
Se la seconda potenza mondiale si è frammentata, ammutolita e sin quasi dissolta, le sue ragioni sono più che mai attuali ed evidenti e le sue analisi continuano a costituire un giacimento anche di proposte.
Da questa consapevolezza bisognerebbe ripartire. Recuperando, assieme alla memoria, innanzitutto la capacità di immaginare e di desiderare un mondo diverso, di riscoprire quelle passioni forti capaci di utopia. Senza di ciò, non c’è cambiamento possibile. E senza cambiamento non c’è futuro, poiché chi governa la globalizzazione – e che ha represso nel sangue quel movimento – continua e continuerà imperterrito e distruttivo ad avvicinare la catastrofe ecologica, sociale e umanitaria che già abbiamo sotto gli occhi quotidianamente.



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