Ecuador, vincono le proteste del movimento indigeno contro il FMI

Ecuador, vincono le proteste del movimento indigeno contro il FMI

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Il movimento indigeno era stato chiaro: nessun accordo sarebbe stato possibile senza il ritiro delle misure anti-sociali disposte dal governo. «Non negozieremo con il sangue dei nostri fratelli», aveva dichiarato la Conaie, la confederazione delle nazionali indigene dell’Ecuador. E così, dopo 11 giorni di proteste popolari, e un bilancio ufficiale di 7 morti, 1.340 feriti e 1.152 persone arrestate, il presidente Lenin Moreno ha fatto quello che in un primo tempo aveva tassativamente escluso: ha ceduto alla richiesta dei manifestanti.

L’ANNUNCIO DELLA DEROGA del decreto 883, con le sue misure di austerity raccomandate dal Fondo monetario internazionale, è arrivato domenica, nel corso dei negoziati tra governo e movimento indigeno che erano cominciati nel pomeriggio con la mediazione delle Nazioni Unite e della Conferenza episcopale.

Un dialogo seguito a un’altra durissima giornata di manifestazioni e di implacabile repressione, ulteriormente complicata dal coprifuoco disposto a partire dal pomeriggio del sabato, quando migliaia di indigeni erano ancora in strada senza sapere dove rifugiarsi.

A dare inizio ai colloqui era stato lo stesso presidente, il quale aveva subito scagionato il movimento indigeno da ogni accusa di violenza, scaricando tutta la responsabilità sui sostenitori dell’ex presidente Rafael Correa, e di nuovo, e senza fornire prove, sul presidente venezuelano Nicolás Maduro. E dunque rifiutandosi di ammettere la brutalità di cui hanno dato prova, ripetutamente e sistematicamente, le forze dell’ordine, anche nei confronti di anziani e bambini.

Che poi i conti con il settore correista non siano affatto chiusi è risultato chiaro proprio ieri mattina, quando, malgrado l’accordo raggiunto con i manifestanti, le forze di sicurezza hanno invaso la casa di Paola Pabón, la presidente della provincia del Pichincha che comprende anche la capitale, e, dopo aver sfondato la porta, hanno proceduto ad arrestarla con l’accusa di istigazione ai saccheggi e agli atti di vandalismo commessi nel paese.

CON GLI INDIGENI, al contrario, Moreno ha usato altre parole e altri toni: «Vi ho sempre trattato con rispetto e amicizia», ha ribadito, proprio per marcare la distanza da Correa, il quale, benché eletto anche grazie ai voti indigeni, aveva finito per lanciare una dura offensiva contro la Conaie, colpevole di contestare le politiche estrattiviste del suo governo. Proprio per questo, al momento dello scontro tra Moreno e il suo predecessore, il movimento indigeno si era schierato inizialmente con il primo, per poi chiarire – man mano che il nuovo governo tradiva le aspettative del suo elettorato, fino a ricadere nelle braccia degli Usa e del Fmi – di non stare «né con Moreno, né con Correa» e tantomeno, ovviamente, con Nebot e con Lasso, i due principali esponenti della destra ecuadoriana. Così, alla presunta amicizia di Moreno, il presidente della Conaie Jaime Vargas ha risposto dicendosi «indignato» per la «violenza spropositata» scatenata contro il popolo – «Ho visto persone morire davanti ai miei occhi» -, ribadendo come il ritiro del decreto fosse la condizione imprescindibile per giungere a un accordo.

E NON È STATA PIÙ TENERA la leader del popolo Sarayaku Mirian Cisneros, che ha inchiodato il presidente alle sue responsabilità riguardo alla violenta repressione da parte delle forze di sicurezza: «Che le restino sulla coscienza – ha affermato – tutti i fratelli caduti in questa lotta». Né i rappresentanti indigeni hanno risparmiato il governo rispetto all’accordo con il Fondo monetario internazionale: «Oggi si avverte chiaramente che è la destra, insieme all’Fmi, ad amministrare il paese, ha detto Vargas rivolgendosi a Moreno, ma aprendo alla possibilità di «lavorare insieme a favore della prosperità, della giustizia sociale e del buen vivir».

Alla notizia del ritiro del decreto e della costituzione di una commissione bilaterale incaricata di elaborarne uno nuovo, migliaia di ecuadoriani sono scesi di nuovo in strada, ma stavolta per festeggiare. E a ragione. In tempi in cui c’è tanto poco di cui rallegrarsi, una battaglia vinta dal popolo non poteva certo non essere celebrata.

* Fonte: Claudia Fanti, il manifesto



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