Rivolta sociale in Iraq, la polizia spara con decine di morti

Rivolta sociale in Iraq, la polizia spara con decine di morti

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I manifestanti si accalcano lungo il filo spinato che la polizia ha posto a difesa della sede del governatorato di Muthanna, sud dell’Iraq. Lo prendono su di forza, ferendosi le mani, e avanzano. Superano il filo spinato ed entrano nell’edificio.

È uno dei video che ieri circolavano in rete sullo sciopero generale popolare indetto in Iraq contro il governo e l’assenza di politiche che abbattano povertà e disoccupazione e sfidino la corruzione imperante da decenni.

UNA PROTESTA VASTA, cominciata all’inizio di ottobre, andata in stand by per la festa sciita dell’Arbaeen, i 40 giorni dopo l’Ashura, e ripresa ieri con il suo carico di rabbia e violenza: manifestazioni si sono svolte ovunque, nella capitale Baghdad e nel sud sciita.

Almeno 27 gli uccisi da polizia e milizie sciite filo-iraniane, oltre 2mila feriti, morti anche un miliziano sciita e un funzionario governativo. I poliziotti hanno aperto il fuoco sulle marce, sparato lacrimogeni e proiettili di gomma, annullando le promesse che poche ore prima il premier Adel Abdul Mahdi metteva sul tavolo sperando di evitare la ribellione: riforme economiche non meglio identificate e rimpasto di governo.

Nessuno gli crede, c’è poco a cui credere in un paese con uno dei più alti tassi di corruzione al mondo, mai ricostruito dopo l’invasione statunitense del 2003 e dove il 60% della popolazione vive con meno di sei dollari al giorno. Eppure sotto ai piedi hanno le quinte riserve al mondo di petrolio.

LA RABBIA È TANTA, enorme. Come la frustrazione per l’assenza di una forza politica in grado di rappresentare la voglia di stravolgere il sistema economico e sociale che lascia indietro le fasce più povere della popolazione. La maggioranza.

E le proteste si fanno violente, a differenza del Libano dove l’arma è l’ironia o dell’Algeria dove alla repressione si risponde con la disobbedienza civile. Qui sembra non esserci spazio per la mediazione con un sistema politico che non ha mai ascoltato. E che mentre promette riforme, apre il fuoco.

Dal sud, Amarah e Nasiriyah, fino a Baghdad, almeno 25 uccisi: si aggiungono ai 149 manifestanti (più otto agenti) uccisi da inizio ottobre, per cui pochi giorni fa la commissione d’inchiesta governativa ha incolpato «l’impreparazione della polizia». Il 70% delle vittime, si legge nel rapporto, è morto per colpi d’arma da fuoco alla testa o al petto.

NELLA PROVINCIA di Muthanna i manifestanti hanno dato alle fiamme gli uffici dei partiti politici sciiti (Hikma e Dawa) e delle milizie sciite fattesi movimento politico, le Asaib Ahl al-Haq e l’organizzazione Badr. Fuoco alle loro sedi anche nelle province di Wasit e Dhi Qar, mentre a Baghdad piazza Tahrir si riempiva ogni minuto di più dall’iniziale nucleo di mille persone che aveva dormito lì per presidiarla. Come la polizia, dispiegata la notte precedente.

È nella capitale che migliaia di manifestanti (per lo più giovanissimi: in Iraq l’età media è 20 anni, metà della popolazione ne ha meno di 24) hanno tentato di prendersi il simbolo supremo del potere che si barrica: la Green Zone, la zona verde creata dall’esercito statunitense nel 2003, sede del parlamento, dei ministeri e delle ambasciate straniere.

Hanno provato ad attraversare il ponte verso la Green Zone, fermati dalla polizia. Ma Tahrir è loro: sono apparse le tende, il corteo da ieri è un sit-in permanente. «Il popolo vuole la caduta del regime», cantano i manifestanti, lo slogan simbolo delle “primavere arabe” che da qui non erano passate.

Sventolano la bandiera irachena, ci si coprono il volto per non respirare i lacrimogeni. Non ci sono bandiere di partito né riferimenti religiosi o etnici. Tanti gli uomini, ma ci sono anche le donne.

IL GOVERNO REAGISCE bloccando internet e imponendo il coprifuoco a sud, mentre l’ayatollah Ali al-Sistani, la più importante autorità sciita del paese, nel sermone del venerdì ha chiesto alle piazze di evitare il caos. Ma il caos, per i giovani iracheni, è altro: è l’assenza di servizi, la carenza di acqua potabile, i continui black out elettrici, la disoccupazione, le divisioni settarie intorno al quale è stata scritta nel 2005 la costituzione e che ha cristallizzato un sistema di potere sulla base della confessione religiosa.

Chiedono una nuova carta costituzionale, un tribunale per processare i corrotti e riforme reali di redistribuzione della ricchezza. Legandosi, con un filo invisibile, alle proteste sociali che in questi mesi stanno investendo mezzo mondo.

* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto



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