Basta austerity e sbornie mercatiste. Intervista a Gianna Fracassi

Basta austerity e sbornie mercatiste. Intervista a Gianna Fracassi

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Serve abbandonare al più presto il liberismo, ma qualche segnale positivo in Europa pare esserci. Si tratta di rivoluzionare le agende e le priorità, partendo dai bisogni e costruendo un nuovo welfare «delle persone e del territorio», fondamento necessario per una redistribuzione equa della ricchezza sociale. Occorre, perciò, pensare a «un modello alternativo, sostenibile, di crescita, sviluppo e giustizia sociale». Sapendo che la sfida più importante e urgente è la lotta ai cambiamenti climatici. Gianna Fracassi, vicesegretario generale della CGIL, disegna un quadro completo del cambio di paradigma che va promosso e governato. Anche dal sindacato.

 

Rapporto Diritti Globali: L’economia mondiale ristagna. La Germania, locomotiva d’Europa, arranca. La guerra dei dazi USA-Cina ha effetti negativi sui mercati globali. Esiste una ricetta economica per tornare a crescere almeno come a inizio anni Duemila?

Gianna Fracassi: Possiamo dire con nettezza che le politiche neoliberiste e di austerity e di svalutazione competitiva sul lavoro ci hanno portato a questa situazione. Dobbiamo partire da una critica profonda e chiara a un modello di sviluppo che ha determinato in Europa e nel mondo un aumento delle disuguaglianze economiche e sociali e provare a invertire la rotta. Intanto abbandonare l’idea che tutto sia gestito dal mercato nella certezza che l’economia crescerà e che per effetto del trickle down – lo sgocciolamento – ci sarà ricchezza per tutti. I fatti ci dicono che invece questo ha determinato una polarizzazione delle ricchezze e che le condizioni di chi lavora sono peggiorate. Lo Stato deve quindi tornare a essere protagonista e attore di politiche economiche fiscali finalizzate allo sviluppo, alla redistribuzione e alle politiche sociali. Una rivoluzione che imporrà anche la riscrittura delle regole dell’economia, ristabilendo equilibrio tra Stato e mercato, penso soprattutto in relazione, ad esempio, alle grandi multinazionali tecnologiche, che hanno straordinario potere economico e finanziario.

Poi è evidente che occorre cambiare segno alle politiche europee. Mi sembra che ci sia qualche apertura, tutta da verificare, a valle delle elezioni e dell’indicazione della nuova presidente della Commissione ed è sicuramente importante. L’Europa non può permettersi timidezze: i dati economici non sono positivi e rischiano di peggiorare. Da questo punto di vista, occorre dare un segnale forte e coraggioso sul fronte degli investimenti, rafforzando le politiche sociali e di coesione europee. Poi è chiaro che rimangono i nodi politici ed economici legati all’Eurozona: per quanto ci riguarda, la cancellazione del Fiscal Compact e lo scorporo dal deficit della spesa destinata a investimenti, così come l’omogeneizzazione delle politiche, a partire da quelle fiscali per di evitare competizione al ribasso fra i Paesi, sono interventi necessari per dare il segno di politica mutata, insieme alla riforma delle istituzioni economiche a partire dalla Banca Centrale Europea, affinché acquisiscano anche l’obiettivo della piena e buona occupazione.

 

RDG: L’Italia invece rimane fanalino di coda in Europa da ormai troppi anni. Commissione e Fondo Monetario continuano a chiederci “riforme strutturali”. Ma quelle fatte hanno avuto risultati controproducenti soprattutto per i ceti meno abbienti.

GF: L’Italia ha bisogno di risolvere i suoi problemi strutturali, che però non hanno molto a che fare con le cosiddette riforme strutturali chieste dalla Commissione. Le politiche di austerity applicate da tutti i governi negli ultimi anni sono, per certi, aspetti causa della situazione economica e sociale italiana. Oggi la fotografia del nostro Paese dopo i dieci anni di crisi ci restituisce un Paese dove sono cresciuti i divari sociali e territoriali: aumento della povertà, un Sud desertificato, impoverimento del lavoro. Non abbiamo visto politiche espansive e il pubblico ha pagato un conto salatissimo, a partire da quelle reti che sono la precondizione della cittadinanza: penso a istruzione e sanità, gli investimenti sono ancora sotto il 30% della fase pre-crisi, non abbiamo fatto politiche industriali pensando di risolvere questo capitolo solo con incentivi. Il dato più significativo per immortalare lo stallo del nostro Paese è la disoccupazione giovanile e la nuova emigrazione: dati alla mano, la sintesi è che non abbiamo investito sul futuro e non stiamo pensando al futuro.

 

RGD: La ricetta economica della CGIL vede al centro il rilancio degli investimenti pubblici e privati. Non rischia di essere un piano che guarda troppo alla tradizione keynesiana in un contesto globale mutato?

GF: John Maynard Keynes scrisse che il valore a lungo termine e quindi gli investimenti con queste caratteristiche sono preferibili per l’intera società e che «l’obiettivo sociale dell’investimento specializzato dovrebbe essere quello di sconfiggere le forze oscure del tempo e dell’ignoranza, che avvolgono il nostro futuro». È fuori contesto questa affermazione? Io penso di no. Dopo la sbornia mercatista abbiamo bisogno di riprendere i cardini di quel pensiero, in Italia e in Europa. Gli investimenti rappresentano il presupposto per creare occupazione e impiegare tutta la forza lavoro. Gli investimenti rappresentano la chiave di volta per aumentare la domanda e allo stesso tempo qualificare l’offerta (la “struttura” di cui dovrebbero occuparsi le riforme evocate) verso un nuovo sentiero di crescita. La letteratura economica converge sulla stima che un punto percentuale di PIL di investimenti pubblici produce fino a tre punti di PIL. Pensiamo a un modello alternativo, sostenibile, di crescita, sviluppo e giustizia sociale, rivoluzionando le priorità: partire dai bisogni per determinare un nuovo welfare delle persone e del territorio, quale fondamento della redistribuzione equa della ricchezza e delle scelte di spesa pubblica. Garantire l’accesso universale ai diritti di cittadinanza, sostenere il welfare state per fornire protezione sociale, cosa che solo lo Stato può fare, è una risposta concreta ai bisogni delle persone. Io penso che sia anche la miglior risposta che la politica possa dare in questa fase storica dove, nel nostro Paese, le mancate risposte alle disuguaglianze hanno aperto il fronte a una destra populista che ha trovato proprio negli strati più fragili della popolazione consenso e voti.

Il tema della redistribuzione è centrale in questa fase storica e politica. Joseph Stiglitz ha scritto che «la creazione di ricchezza è spesso confusa con l’estrazione di ricchezza. Gli individui e le società possono diventare ricchi facendo affidamento sul potere del mercato, sulla discriminazione dei prezzi e su altre forme di sfruttamento. Ma ciò non significa che abbiano dato alcun contributo alla ricchezza della società […]. Abbiamo condotto un esperimento durato 40 anni con il neoliberalismo. L’evidenza ci porta a dire, comunque sia, che è stato un fallimento». Lo cito perché oltre che molto efficace, rappresenta bene un pensiero che – guardando anche a un Paese diverso dal nostro – manifesta la necessità sociale, e aggiungo anche democratica, di determinare un profondo cambiamento.

 

RDG: Un tema sempre messo in secondo piano è quello della lotta all’evasione fiscale, specie in Italia. La tecnologia permetterebbe di perseguirla in modo quasi totale, ma i decisori politici si guardano bene dall’utilizzarla per questo scopo.

GF: È incredibile che un Paese con 110 miliardi di evasione fiscale annua non metta in campo tutte le misure possibili per recuperare risorse. Al contrario, in questi anni ci si è molto adoperati sui condoni o simili. E poiché non si è avuto il coraggio di chiamarli con il loro nome, si sono usate formule positive dal punto di vista linguistico, tipo “pace fiscale” o termini inglesi come “voluntary disclousure”. Le misure da attuare per recuperare subito una fetta consistente sono relativamente semplici e note. La chiave è la tracciabilità, tenendo anche conto che l’imposta più evasa in Italia è l’IVA. Faccio un esempio: ho letto reazioni entusiastiche sul recupero di risorse per effetto della fatturazione elettronica – misura, tra l’altro, proposta dalla CGIL qualche anno fa. Perché, allora, non allargare l’utilizzo delle nuove tecnologie ad esempio alla profilazione fiscale, combinando e mettendo insieme i dati già in possesso dello Stato? Oppure: perché non estendere i pagamenti elettronici, limitando l’uso del contante? Siamo il Paese in Europa che ha i dati più bassi per uso del denaro elettronico.

Queste sono alcune delle proposte che abbiamo fatto insieme a CISL e UIL, oltre al rafforzamento dell’Agenzia delle Entrate in termini di professionalità per aumentare l’accertamento, eccetera. Insistere sulla lotta all’evasione è per noi fondamentale, sia per riaffermare la necessità di redistribuzione fiscale su lavoratori e pensionati, sia per contrastare quella fetta di economia sommersa che si nutre proprio di evasione e corruzione. Perché non si fa? Credo che il motivo sia nella ricerca del consenso a breve; tanto per fare un esempio, a livello politico paga di più il “saldo e stralcio” che il diminuire la soglia del contante. La materia fiscale è quella che più si presta alle scorrerie propagandistiche; penso anche alla flat tax, di cui si è discusso per mesi, una misura assolutamente fuori linea rispetto alla progressività prevista dalla nostra Costituzione e che avvantaggerebbe i redditi più alti. Però è stata usata come grimaldello del consenso immediato. Per fare un paragone azzardato, anche in questo caso vale la lezione di Keynes sui valori a lungo termine: servirebbe una politica fiscale che provi a guardare un po’ oltre le necessità dell’“ora e adesso”.

 

RDG: La CGIL ha appoggiato la protesta contro il Climate Change e ha ospitato Greta Thunberg, aderendo ai Fridays for Future. Quale ruolo può avere il sindacato nella battaglia contro il cambiamento climatico?

GF: Io penso che oggi la politica di contrasto ai cambiamenti climatici sia la Sfida, che non solo il sindacato ma l’intero Paese deve affrontare con determinazione. Infatti, il livello di rischio a cui è arrivata la crisi climatica è quello della irreversibilità, questo ci dicono gli scienziati, a partire dall’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change. Questo è un grado di pericolo che non c’era mai stato, un fatto che di per sé dovrebbe cambiare il discorso pubblico e diventare per tutti il punto di partenza. Centinaia di migliaia di ragazzi in Italia e nel mondo, con parole d’ordine nette e radicali sul tema dei cambiamenti climatici, ce lo hanno ricordato. Hanno usato strumenti di lotta “sindacali”, come la piazza e lo sciopero per affermare la radicalità del messaggio e delle risposte che chiedono. Credo che dovremo esser tutti all’altezza di quella radicalità e di quella nettezza, anche il sindacato. È una sfida complessa, perché investe non solo tanti settori produttivi ma anche gli stili di vita e che porta in sé una serie di contraddizioni anche molti forti se guardiamo al lavoro.

È evidente che c’è un nodo politico e sociale, anche per il sindacato. Può essere un nodo anche molto difficile. Siamo consapevoli che nel Paese ci sono molte aziende che hanno “un’impronta ambientale” con un alto consumo di energia fossile e con scarsissimo riciclo di materie prime. Per questo abbiamo bisogno di giusti strumenti per gestire un passaggio storico per il lavoro e per l’ambiente, altrimenti il rischio è che si scarichino sui lavoratori i costi della transizione stessa. La “giusta transizione ambientale” per noi significa in primo luogo strumenti di sostegno al reddito ad hoc per sostenere e favorire la ricollocazione dei lavoratori coinvolti in questo processo e prevedere riqualificazione e formazione. Significa governare questo processo complesso che riguarda l’energia, la mobilità, i nuovi prodotti, l’innovazione e significa intervenire nella politica industriale del Paese. Aggiungo che deve essere lo Stato a guidare questo processo di riconversione ecosostenibile. Un Piano green con forti investimenti in innovazione e ricerca che tenga insieme tutela del lavoro e nuove opportunità di lavoro. Pensiamo solo a cosa significherebbe un piano di efficientamento energetico del patrimonio pubblico o affrontare il tema del dissesto del territorio. Se guardo al recente passato, la politica che dovrebbe guidare questa complessità e invece ripiegata in una dinamica permanente di ricerca del consenso, rappresenta una realtà e delle priorità distorte, che distraggono dagli obiettivi importanti, dai veri problemi; si tratta di uno specchio distorto della realtà che costruisce solo i nemici e i muri e che impedisce di vedere lontano.

 

RDG: Lei è insegnante, come considera la formazione permanente e i recenti cambiamenti all’interno del mondo della scuola?

GF: Marc Augé, qualche anno fa, ci ammoniva sullo “spread del sapere”, la linea di divisione del mondo tra chi avrà l’accesso agli strumenti della conoscenza e chi non li avrà; una linea forse meno rilevante nel dibattito pubblico rispetto ai temi delle disuguaglianze economiche ma invece strettamente collegata per gli effetti che determina alla povertà e alla nuova segregazione sociale.

La leva dell’istruzione, anche alla luce dell’innovazione tecnologica e della transizione ambientale, è fondamentale per il nostro Paese, che tra l’altro non smette di avere tassi inaccettabili di dispersione scolastica. Io continuo a pensare che è necessario innalzare i livelli di istruzione; continuo a pensare che occorra affrontare in modo diverso il tema dell’orientamento allo studio e al lavoro e che occorra rivedere i cicli scolastici. Abbiamo ancora di più necessità di un sistema strutturato e solido di apprendimento permanente, che consenta di affrontare le sfide che pone il lavoro che cambia, la formazione continua come diritto individuale dei lavoratori e dei cittadini adulti. Mi piacerebbe – come cittadina prima che come insegnante – che questi temi fossero oggetto di dibattito pubblico e di interventi condivisi in primo luogo da chi nella scuola ci lavora: non è stato così in passato. Credo che istruzione e apprendimento permanente facciano ancora la differenza sul versante dell’inclusione sociale, oltre che della partecipazione ai processi di cittadinanza, siano cioè leve essenziali per lo sviluppo economico e democratico di un Paese.

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 Gianna Fracassi: nata ad Arezzo nel 1966, dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza ed essersi abilitata all’esercizio della professione di avvocato, inizia a lavorare prima nella scuola dell’infanzia, poi nella scuola primaria. Ha insegnato a lungo come maestra nei paesini della montagna aretina Chiusi della Verna e Subbiano. Il suo percorso sindacale inizia proprio da queste esperienze lavorative, nella CGIL Scuola di Arezzo, che guida a partire dagli anni 2000. Nel 2006 entra nella segreteria confederale della CGIL della stessa città, nel 2007 passa alla guida della segreteria regionale della Federazione Lavoratori della Conoscenza (FLC) Toscana. Dal 2009 entra nella segreteria nazionale della FLC a Roma. Nel giugno 2014 viene eletta segretaria confederale della CGIL nazionale, per occuparsi di politiche economiche; politiche del clima e dell’ambiente; politiche del Mezzogiorno e fondi strutturali; politiche fiscali; Piano del lavoro e contrattazione territoriale per lo sviluppo; politiche per la ricostruzione (terremoto); politiche dello sviluppo urbano e della casa. Infine, dal XVIII congresso CGIL del gennaio 2019, diviene vicesegretaria generale della CGIL.

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* Dal 17° Rapporto Diritti Globali – Cambiare il sistema, a cura di Associazione Società INformazione, Ediesse editore

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