Penuria d’acqua, un dramma che ci costringe a ripensare il mondo

Penuria d’acqua, un dramma che ci costringe a ripensare il mondo

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Nel decennio Onu di azione per l’acqua, gli ultimi 7 nel mondo sono stati disastrosi. Un fenomeno che provocando l’aridità dei suoli produce fragilità ecosistemica e instabilità sociale. Risparmiare, riutilizzare, recuperare: non c’è altro da fare per dare da bere al Pianeta

 

Un torrido pomeriggio di giugno sulle colline del basso Piemonte, dopo molti mesi di pioggia zero e un inverno senza neve. Un abitante ricorda le gite al lago montano di Ceresole che adesso è una pietraia. Conversando di siccità con un muratore nordafricano, gli chiede: «Ma almeno là da voi, piove?». La risposta è un «no» desolato.

IN PIENO DECENNIO ONU DI AZIONE per l’acqua, gli ultimi sette anni sono stati disastrosi a livello mondiale, informa l’ultimo State of the Global Climate dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm). Il cambiamento climatico antropogenico rende più probabile e grave il fenomeno siccità, che poi è uno dei motori dell’aridità dei suoli, della fragilità ecosistemica, dell’instabilità sociale.

LE ACQUE DOLCI CE LA POTRANNO FARE, a salvarci, ma a certe condizioni. Abbattere le emissioni climalteranti. Protezione degli ecosistemi e cura dei bacini idrici. Ripristino dei suoli. Migliori sistemi colturali e un altro modello alimentare. Risparmio, riparazione, recupero delle acque negli usi civili. Raccolta dell’acqua piovana. Si impone un insieme di normative, tecnologie, scelte produttive e di consumo, comportamenti; per gli usi agricoli, industriali, energetici e civili.

AUTORE DEL SAGGIO «SETE» (1992), Giorgio Nebbia, ambientalista e scienziato delle merci fu chiaro: «Una tonnellata di acqua pro capite all’anno si può ritenere indispensabile per bere, lavarsi e cucinare. Oltre, inizia la discriminazione fra le classi». E fra i paesi. In Sahel il presidente Thomas Sankara lottava per garantire «dieci litri di acqua pulita per ogni persona ogni giorno»; in Italia la media nazionale è di oltre 200 litri – ma a seconda delle aree si va dalla penuria fino alle piscine private e ai praticelli anglofili.

E’ POSSIBILE UNA «CONTRAZIONE e convergenza» intorno al consumo diretto di 40-50 litri pro capite al giorno, diritto minimo fissato dall’Onu. E la siccità porta al revival delle sempiterne 3 R – risparmiare, riutilizzare, recuperare. La cura per l’acqua, compito di tutti, parte dall’eliminazione degli usi perversi e delle perdite, un enorme giacimento al quale attingere. Secondo il rapporto Le statistiche dell’Istat sull’acqua (2019-2021), si perde oltre il 36% dell’acqua immessa in rete per gli usi civili; il resto si perpetra a valle… anche con l’assenza delle bacinelle sotto ogni rubinetto, necessarie al sacro doppio uso).

MA IL CONSUMO DI ACQUA DOLCE si nasconde in ogni prodotto. Nel 1993 il geografo Tony Allan introduce il concetto di «acqua virtuale»: quella utilizzata – e inquinata – per produrre alimenti (la parte del leone nel consumo globale) e altri beni di consumo, energia compresa. Anni dopo, Hoekstra e Mekonnen sviluppano l’idea di «impronta idrica» (articolata in tre componenti: verde, blu, grigia a seconda dell’origine). E stimano in oltre 2.300 miliardi di metri cubi all’anno i flussi internazionali di acqua connessi agli scambi. Conteggiando l’acqua virtuale, il consumo pro capite degli italiani supera i 6.000 litri al dì.

LA RETE WATER FOOTPRINT NETWORK («per un uso equo e intelligente dell’acqua nel mondo») mette a disposizione diversi studi e un contatore – valori indicativi – per i prodotti. Esempi: un kg di carne bovina richiede fino a 15.000-20.000 litri di acqua, soprattutto per produrre i mangimi, un kg di carne di maiale 6.000, un kg di grano 1.000, un kg di zucchero 1.700, un kg di mele 822, un kg di formaggio 3.000, un kg di cioccolato 17.000. Tazzina di caffè? 130.

E’ UNA QUESTIONE DI MODELLI agroalimentari e scelte di consumo: il sindacato internazionale La Via Campesina è impegnato da tempo nell’agroecologia che, come l’agricoltura naturale, risparmia acqua e non la inquina. Insieme alla conversione e alle produzioni plant-based, la cui impronta idrica è molto inferiore, si impone il ritorno a colture che da sempre danno buona prova di sé in climi aridi: miglio, sorgo, cassava, legumi, arachidi… Parchi e nutrienti.

PER SALVARE ACQUA: RIUSARE I DUREVOLI, uscire dai monouso, risparmiare energia. Il Water Foorprint Network dà conto anche della pesantezza idrica nella produzione di energia, agrocarburanti compresi; ragione di più per risparmiarla – e il clima ringrazia. E i tessili? Per produrre un jeans di cotone occorrono circa 11.000 litri di acqua (irrigazione, evaporazione, diluizione delle acque reflue della lavorazione); una maglietta di pochi ettogrammi ne richiede 2.700. Una tonnellata di pelli conciate, poi, beve 800.000 litri di acqua (nell’intero ciclo). Ma ecco: nel mondo intero, un giacimento di abiti, tessuti, filati già prodotti aspetta di tornare a vivere nel riuso e riutilizzo; puro lavoro da pagare bene, senza la zavorra delle risorse fisiche. Anche il riciclo salva acqua, si pensi alla carta. Davanti al paradosso dell’acqua virtuale necessaria a produrre e trasportare le inutili bottiglie di plastica o vetro dell’acqua industriale, diventa evidente che dallo spreco idrico legato agli imballaggi e alle merci usa e getta si esce con una rivoluzione nel modello dei consumi. Non basta lo sviluppo di tecnologie non idrovore: abbandonare l’inessenziale forse sarà una scelta obbligata per rispettare anche l’acqua invisibile.

INDICATORI E VITTIME INVISIBILI della crisi, i selvatici e la biodiversità soffrono sia come singoli esseri, animali e vegetali, che come specie. Si pensi agli organismi legati alle acque interne. Spiega Andrea Agapito, biologo e responsabile Rete e Oasi del Wwf Italia: «Il prosciugamento di molte piccole e grandi zone umide, tra marzo e maggio, ha impedito o ridotto drasticamente la riproduzione di diverse specie di anfibi, alcune delle quali in uno stato di conservazione già critico come il Pelobate fosco insubrico, la Rana di lataste o il Tritone crestato italiano». Ancor peggio per chi vive sott’acqua: «Non li vediamo, ma scompaiono. Il trend di estinzione delle specie di acqua dolce è quattro volte superiore a quello delle specie terrestri o marine; ogni decennio se ne va un buon 4%. Ci sono state morie di pesci in tratti fluviali e zone umide rimaste completamente a secco. Resistono meglio certe specie alloctone, a scapito delle autoctone come le cozze d’acqua dolce che si stanno rarefacendo sempre più a causa del degrado ambientale e della loro condizione di «filtratori».

PER DISSETARE I SELVATICI, qualche piccolo aiuto è alla portata di tutti, magari sotto forma di contenitori d’acqua all’ombra, piazzati con zavorra nei pressi di aree verdi. Per i volatili, Marco Dinetti, responsabile ecologia urbana della Lipu, suggerisce: «Mettere a disposizione un po’ d’acqua nei periodi siccitosi serve agli uccelli non solo per bere, ma anche per tenere in ordine il piumaggio in ogni stagione. La cosa più semplice è prendere un sottovaso e tenerci due dita di acqua con un paio di sassi»; tutto fuori portata di gatti, e cambiare l’acqua per non aiutare le zanzare. Alle rondini, poi, servirebbe un po’ di fango per costruire il nido…Il Wwf lavora al progetto One million ponds (un milione di stagni): zone umide per riportare biodiversità ma che fungono anche da abbeveratoi.

IN KENYA QUALCHE ANNO FA NELLA MORSA della siccità l’attivista Patrick Kilonzo iniziò a portare acqua nel vicino parco di Tsavo, dove le pozze di approvvigionamento si erano seccate; continua tuttora, anche con progetti per migliorare la coesistenza fra fauna locale e comunità umane.

CERTO IN AFRICA, OCCUPARSI DI SELVATICI e biodiversità può sembrare un lusso. In uno scenario complesso e tormentato, spiega Isabella Pratesi che dirige il programma conservazione del Wwf, «con lo stress idrico, oltre alla sete e alla concorrenza per l’acqua fra animali domestici e selvatici, aumenta il bracconaggio a scopo di sopravvivenza umana, si acuiscono i conflitti». Ma al tempo stesso, «dove si recuperano gli ecosistemi e si conserva la biodiversità, si mantengono risorse idriche anche per le comunità umane».

OCCORRE UN APPROCCIO DI CURA: «Stiamo rinaturalizzando in tante aree: Tanzania, Kenya, bacino del Congo, Indonesia, India… La natura aiuta, perché vive di acqua e dunque fa di tutto per trattenerla. Gli ecosistemi forestali fanno un effetto spugna. Natura e persone si riappacificano. Ma occorre agire per tempo, con pazienza».

RIVITALIZZARE LE TECNICHE TRADIZIONALI di raccolta dell’acqua è un’altra paziente saggezza di cui danno prova comunità in tante zone aride. Per esempio, l’indiano Anil Agarwal auspicava «un agglomerato di democrazie ecologiche raccoglitrici di acqua piovana». A queste tecniche in ambito rurale e urbano, il Centre for Science and Environment (Cse) di New Delhi ha dedicato molti progetti e ricerche, oltre al bellissimo video-spot Rainwater harvesting.

INTANTO, NELL’ARIDO RAJASTHAN, da anni il Barefoot College, specializzato in energia solare, acqua ed educazione per i villaggi, ha piazzato sistemi di stoccaggio delle acque piovane sui tetti di oltre mille scuole.

* Fonte/autore: Marinella Correggia, il manifesto



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