Il Decreto Cutro e il diritto penale del nemico

Il Decreto Cutro e il diritto penale del nemico

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Il decreto legge va nella medesima direzione intrapresa da tutti i governi degli ultimi 10 anni, ma lo fa con una spregiudicatezza e con brutalità normativa ancora peggiore di quella vista nel 2018 con il decreto Salvini

 

La protezione speciale non è stata abrogata, ma in tutta evidenza non è questo il punto centrale della riforma attuata con il decreto 20/2023 sul diritto di asilo e immigrazione, approvato ieri, il c.d. Piantedosi II. Il decreto legge va nella medesima direzione intrapresa da tutti i governi degli ultimi 10 anni, ma lo fa con una spregiudicatezza e con brutalità normativa ancora peggiore di quella vista nel 2018 con il decreto Salvini. Il provvedimento opera su due fronti: restringe la base delle più importanti garanzie costituzionali e annichilisce le speranze esistenziali di una vasta gamma di persone straniere.

Partiamo da quest’ultimo. È vero che non si abroga la protezione speciale, ma si cosparge il campo di ostacoli. Non sarà più possibile chiederla senza attraversare l’intero e faticoso iter della domanda di asilo, si elimina un passaggio normativo di natura esemplificativa che consentiva la facile applicazione dell’istituto (causando verosimilmente un massiccio ricorso alla magistratura) e infine ne viene soppressa la convertibilità. Per i permessi di soggiorno per protezione speciale rilasciati in futuro non sarà, infatti, più possibile chiedere la conversione in un permesso per motivi di lavoro. Ai loro titolari non è più data la possibilità di pianificare la propria esistenza e di nutrire una speranza di stabilità sul territorio italiano.

Senza più le timide remore di facciata dei governi precedenti, il decreto 20/2023 dispiega – in tutta chiarezza – la volontà di legittimare un sentimento di superiorità, come architrave dei rapporti umani ancor prima che socio-economici. In questa chiave si possono leggere anche le importanti modifiche apportate dallo stesso decreto al sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, che riqualificano come principale la forma di accoglienza dei grandi centri (fino ad oggi transitoria e marginale), i cosiddetti ex CARA: centinaia di persone costrette caoticamente a convivere in un modello di vita lontanissimo da quello tipicamente ordinato e individuale della nostra società. Inoltre vengono eliminati i servizi di consulenza giuridica, di supporto psicologico e di insegnamento della lingua italiana e consente alla Pubblica Amministrazione di avvalersi di forme di accoglienza ancora più basiche, probabilmente immaginate come gli attuali servizi di emergenza freddo. Non si risparmiano risorse economiche, ma piuttosto si vuole umiliare e rimarcare la differenza tra individui.

Anche più preoccupante l’altro versante, l’aggressione alla costituzione italiana e alle sue garanzie di fondo. Il decreto introduce una nuova forma di detenzione amministrativa, quella da operare in frontiera – per quattro settimane – ai danni di chi arriva in Italia per richiedere asilo e che ha il solo scopo di analizzare (con una procedura rapidissima e superficiale) la domanda di asilo, mantenendo il richiedente in stato di detenzione in modo da poterne disporre fisicamente per un immediato rimpatrio nel paese di origine. Una nuova ipotesi di detenzione amministrativa, quindi, che ancora una volta non si basa sull’accusa di aver commesso un reato o di essere altrimenti pericoloso.

Una privazione della libertà che appare priva di un intervento del pubblico ministero o di una vera magistratura e fuori dalle garanzie minime sancite nel 1948 dall’art. 13 della costituzione come reazione basica e indispensabile al più tipico degli strumenti dei regimi autoritari. La prima forma era stata introdotta dalla Turco-Napolitano nel 1998 con gli ex Cie, gli attuali Centri Permanenti per il Rimpatrio (CPR), digerita in qualche modo anche dalla Corte Costituzionale nel 2001 e poi ampliata a dismisura dai governi successivi. La stessa detenzione amministrativa è stata poi riproposta e dilatata dal decreto Orlando-Minniti nel 2017 per i richiedenti asilo che si sottraggono al foto-segnalamento e ha fatto un notevolissimo scarto in avanti con il decreto Salvini del 2018 e il successivo decreto Lamorgese del 2020.

Questi ultimi due decreti hanno pianificato e realizzato una detenzione amministrativa nei c.d. luoghi idonei (per lo più le stanze di sicurezza della polizia, vivido ricordo del ventennio), nelle frontiere e nei CPR non più a scopo di rimpatrio, ma al solo fine di identificare le persone straniere appena arrivate in Italia. Forme giuridiche di privazione della libertà personale considerate mostruose un attimo prima della Turco-Napolitano del 1998 e adesso dilaganti. Ovviamente, il decreto n.20/2023 contiene anche degli aggravi della durata della detenzione amministrativa nei CPR e gli ulteriori incrementi di pena per il reato di favoreggiamento dell’ingresso irregolare. Come da tradizione ormai di molti governi appartenenti alle contrapposte fazioni politiche, sempre finalizzate non solo a criminalizzare il viaggio delle persone straniere, ma soprattutto a strappare la Costituzione italiana e il principio portante della libertà personale, con norme apertamente contrarie al principio di ragionevolezza e proporzionalità, che rappresentano la prima garanzia per la collettività.

Il tutto, in piena continuità con tutti i governi degli ultimi anni che hanno favorito, più in generale, un diritto penale autoritario, teso a colpire le fasce economiche più svantaggiate e i soggetti politicamente o socialmente più esposti. La promozione di un sentimento di superiorità e l’uso dello strumento penale (anche declinato in via amministrativa) scagliato contro chi nel passato veniva appellato come vagabondo o dissidente non rappresentano affatto un nostalgico ritorno al passato, ma una prospettiva futura di un diritto che deve definirsi antimoderno, innovativo, che sempre più schiettamente si pone in contrapposizione con i valori e gli strumenti sintetizzati nella Costituzione e che rappresentano attualmente la base condivisa del patto sociale collettivo. Una tendenza che dal 1998 vede nel diritto dell’immigrazione il suo punto d’affaccio e che in questo ultimo decreto trova la sua espressione più schietta, che non può di certo essere contrastata con una semplice politica di riduzione del danno, come viceversa sembra credere l’attuale società civile.

* Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione

Fonte/autore: Salvatore Fachile, il manifesto



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