Quale futuro dopo Hamas? L’ANP non salirà mai sui carri armati di Netanyahu

Quale futuro dopo Hamas? L’ANP non salirà mai sui carri armati di Netanyahu

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Com’è possibile la pace se i coloni – 700 mila – non vengono costretti da Israele a lasciare la Cisgiordania e a rientrare nelle «frontiere» della linea di armistizio delle guerre precedenti?

 

Il presidente Usa Joe Biden ha sottolineato la scorsa settimana che il conflitto nella Striscia di Gaza de ve finire con «due Stati per due popoli». Raggiungere questo obiettivo, ha detto con apparente convinzione, richiede «uno sforzo concentrato da parte di tutte le parti – israeliani, palestinesi, partner regionali, leader globali – per metterci sulla strada verso la pace». I leader europei gli hanno fatto eco. Arabi, quasi tutti, pure. Per una parte degli israeliani, anche quelli che, come il premier Netanyahu, da sempre hanno osteggiato con determinazione l’idea di condividere la Palestina mandataria, l’esortazione del capo della Casa bianca è apparsa, improvvisamente e a sorpresa, come l’unica possibile.

Qualcuno, assicurano dal Dipartimento di Stato, elencherà le tappe del processo da avviare «appena finiscono i combattimenti». Che, aggiungono, cominceranno «sul serio» solo quando gli ostaggi saranno rilasciati da Hamas e dalle altre organizzazioni militanti palestinesi nella striscia.

Il presidente americano e gli altri leader sembrano dimenticare come dal 1993 a oggi Stati Uniti e Europa siano stati quasi assenti quando avrebbero potuto, dovuto, portare avanti con la forza economica e politica di cui disponevano, l’accordo firmato sul prato della Casa Bianca. Viste le divisioni e incertezze che regnano tra i membri del blocco Nato, è difficile pensare che si concentreranno per tentare di chiudere il conflitto più lungo della nostra epoca.

Nel suo libro, The Vocabulary of Peace (1995), la scrittrice israeliana Shulamith Hareven sosteneva che gli accordi di Oslo, pur nella pratica fallimentari, hanno portato alla realtà mediorientale, un cambiamento essenziale: «D’ora in poi -scrisse – non è automaticamente ebreo contro arabo e arabo contro ebreo; ci sono gli ebrei e gli arabi che sostengono la pace, e gli ebrei e gli arabi che si oppongono entrambi».

Vero, ma come precisa Mohammed S. Dajani Daoudi direttore del Wasatia Academic Institute di Gerusalemme, «gli accordi di Oslo hanno portato un altro cambiamento essenziale: d’ora in poi, non sono i palestinesi contro gli israeliani e gli israeliani contro i palestinesi, ma sono i palestinesi e gli israeliani massimalisti che credono in uno Stato dal fiume al mare escludendo l’altro; e gli israeliani e i palestinesi moderati, che sostengono la condivisione della terra in una soluzione a due Stati o in una confederazione». Odio, paura, sfiducia, oltre al fanatismo religioso: sono gli elementi comuni, oggi ancora più di ieri, a israeliani e palestinesi. Sono elementi che dovranno essere affrontati con una terapia tutta da individuare. La psichiatria, la psicologia sono indispensabili quanto la diplomazia, l’economia e le buone intenzioni. Per gli ebrei israeliani l’assalto compiuto da Hamas viene paragonato all’Olocausto. Per i palestinesi il bombardamento di Gaza è la loro Nakba, un altro crimine contro l’umanità. E anche se si riuscirà ad avviare un negoziato la paura reciproca sarà un elemento non facile da superare.

Ci sono alcuni momenti di quel settembre del 1993 a Washington che mi rimasero impresse. Si respirava un clima misto di apprensione, felicità e incertezza la mattina sul prato della Casa Bianca quando Rabin, Peres e Arafat si strinsero la mano firmando gli accordi di Oslo. Poche ore dopo nell’ambasciata israeliana nella capitale americana ascoltai un noto giornalista ebreo americano rivolgersi al ministro degli Esteri. «Shimon, come hai fatto a tradirci in questo modo?». Lui, come tanti altri ebrei israeliani e della diaspora erano cresciuti con la convinzione che, un giorno, le frontiere di Israele (ancora oggi mai definite) sarebbero state chiare: da un lato il Mediterraneo, dall’altro il fiume Giordano. Fu per anni la piattaforma del Likud, poi modificata per tattica politica-diplomatica, ed è ancora oggi il progetto della destra sionista che continua, proprio in questi giorni a rafforzare gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, la parte della città che nella mente di tutti i musulmani dovrebbe diventare la capitale dello Stato palestinese. Molti palestinesi, anche moderati, si chiedono come può essere possibile una pace vera se i coloni – 700 mila – non vengono costretti da Israele ad abbandonare la Cisgiordania e rientrare nelle frontiere riconosciute e definite dalla linea di armistizio delle guerre precedenti?

Ma torniamo alla psicologia. Due docenti dell’università Bar Ilan, fino a poco tempo fa considerato il più religioso e politicamente estremista ateneo di Israele, con il suo campus in una città-colonia (Cisgiordania occupata), da dove è uscito l’assassino di Itzhak Rabin hanno abbozzato un progetto per oggi e domani. Credibile? Forse, ma di difficile realizzazione. «Gli interessi israeliani sono meglio serviti stabilendo a Gaza un’amministrazione legata all’Anp palestinese insieme a un massiccio programma di ricostruzione sostenuto dagli Stati Uniti e da altri attori internazionali e regionali. La dichiarazione di sostegno di Israele per stabilire un tale regime a Gaza il prima possibile, fornirebbe una direzione politica all’operazione militare e ne migliorerebbe la legittimità internazionale. Sconfiggere Hamas deve in definitiva significare non solo la sua distruzione militare, ma l’empowerment (la valorizzazione) di un’alternativa palestinese moderata».

Non credo che esista un esponente palestinese dell’Anp, anziano o giovane, per quanto pacifista sia disposto oggi o domani a montare su un carro armato con la stella di Davide, entrare a Gaza e governare la striscia o ciò che vi rimane quando saranno terminate le operazioni militari israeliane.

* Fonte/autore: Eric Salerno, il manifesto



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