Nelle 27 pagine – tantissime, l’intero Accordo di Parigi ne conta 24 – sono ancora decine i punti aperti. La materia più divisiva rimane l’energia. L’Unione europea, assieme all’Alleanza dei piccoli stati insulari e una manciata di nazioni sparse per il mondo, si è data come obiettivo l’inserimento dell’espressione phase-out, abbandono, relativa ai combustibili fossili. Un’ipotesi a cui si oppongono frontalmente i paesi del Golfo, l’India, la Russia, l’Iran. Nella bozza circolata ieri, al punto 35, ben quattro ipotesi di formulazione su cinque includono questa espressione. Un passo avanti inaspettato. Ma la quinta opzione, la preferita dai contrari, consiste direttamente nel cancellare l’intero paragrafo, producendo potenzialmente l’ennesima risoluzione che i combustibili fossili non osa nemmeno nominarli, figuriamoci eliminarli.

RISPETTO AI DOCUMENTI circolati in precedenza scompare a sorpresa la formula mediatrice del phase-down, riduzione, già usata a Cop26 a proposito del carbone. In compenso tutte le ipotesi che contengono l’espressione phase-out mostrano vistose scappatoie. Le tempistiche dell’abbandono, ad esempio, sono vaghe o non specificate. Non solo: una delle versioni proposte parla di abbandono dei combustibili fossili solo se unabated, cioè non accompagnati da sistemi di cattura e stoccaggio della CO2. I sistemi di cattura e stoccaggio della CO2 sono uno dei cavalli di battaglia della lobby fossile, presente in forze a Cop28, e godono di grande sostegno presso la delegazione statunitense – che è a favore del phase-out, ma con molta meno convinzione dei partner europei. Il problema è che le Cop non hanno mai prodotto una definizione ufficiale di quali impianti siano da considerarsi abated: il rischio è che basti la cattura di una minima parte della CO2 prodotta per essere considerati in linea con gli accordi presi a Dubai.

QUESTA TIMIDEZZA estrema sta frustrando le già basse aspettative di scienziati ed ecologisti. Le risoluzioni Cop sono di fatto non vincolanti: questo significa che anche di fronte al più ambizioso dei risultati – scenario comunque improbabile – non è sicuro che i Paesi rispettino gli impegni presi. Emblematico il caso europeo, spesso in prima linea nelle Cop per raggiungere impegni significativi, ma anche lontanissima dal rispetto degli Accordi di Parigi.

IL PHASE-OUT non è l’unico punto di frizione tra le parti. Sulle responsabilità della crisi climatica e sulla distribuzione dei suoi costi si sta consumando lo scontro tra mondo occidentale e G77+Cina, il gruppo negoziale che – a dispetto del nome – unisce Pechino e 134 paesi del Sud globale. I secondi vogliono sia messo nero su bianco che i paesi più ricchi hanno maggiori responsabilità storiche nell’accumulo di gas climalteranti in atmosfera, e che la transizione nei paesi in via di sviluppo è condizionata allo sblocco delle risorse finanziarie necessarie. Concetti di cui l’occidente, in questi termini, non vuole nemmeno sentire parlare. C’è spazio anche per lo scontro commerciale tra Cina e Europa. Nel 2026 dovrebbe entrare definitivamente in vigore nella Ue il Carbon Border Adjustment Mechanism, un tassa sulle importazioni per beni prodotti da paesi extra-comunitari con norme climatiche meno severe. Fumo negli occhi per il governo cinese, che sulla risoluzione finale vorrebbe far mettere nero su bianco che «le misure adottate per combattere il cambiamento climatico, comprese quelle unilaterali, non dovrebbero costituire una restrizione dissimulata al commercio internazionale». La stessa divisione si ripropone sul carbone. I paesi occidentali, che ne sono meno dipendenti, vorrebbero inserire nel testo «il rapido abbandono del carbone unabated in questo decennio». I grandi consumatori – Cina e India – non ne hanno nessuna intenzione. Va meglio per quanto riguarda l’obiettivo della triplicazione della capacità rinnovabile entro il 2030: pur con qualche distinguo sulla formulazione, sui numeri sono tutti d’accordo.

«A FINE SETTIMANA la Cop dovrà aver prodotto un treno ad alta velocità. Per ora, abbiamo solo una vecchia carrozza» era solo pochi giorni fa il commento sui negoziati di Simon Stiell, segretario dell’Unfccc. Con la bozza di ieri le cose non sembrano migliorare. Le Cop, in crisi di credibilità, avrebbero bisogno di un risultato forte per rilanciarsi. Ma né la sede di quest’anno, una petromonarchia, né la probabile location di Cop29, l’Azerbaijan del gas, sono d’aiuto. E in attesa di Cop30 in Brasile, nessun piano di transizione tra quelli presentati dai grandi attori globali sembra adeguato alla gravità della situazione. Servirebbero nuovi paradigmi, è il parere di molti nel mondo della giustizia climatica. Ma è buio fitto su chi possa farsene interprete.

* Fonte/autore: Lorenzo Tecleme, il manifesto