Nessuno è al sicuro a Gaza. E non sono e non saranno al sicuro anche i civili ammassati nelle tendopoli allestite a Rafah sul confine con l’Egitto. Giovedì sera il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha annunciato che l’esercito ora si dirigerà a Rafah, che insieme al centro della città di Deir al-Balah, è tra le ultime aree non ancora travolte pienamente dall’offensiva di terra. «Stiamo portando a termine le nostre missioni a Khan Yunis, raggiungeremo anche Rafah ed elimineremo gli elementi terroristici che ci minacciano», ha detto Gallant.

Se davvero andrà così le conseguenze saranno catastrofiche. Già durante la seconda Intifada più di 20 anni fa, l’avanzata dell’esercito israeliano lungo la Filadelfia Road a Rafah causò morti, feriti, lo sfollamento di migliaia di palestinesi e la distruzione di oltre mille abitazioni. Una giovane statunitense, Rachel Corrie nel 2003 pagò con la vita il tentativo di fermare un bulldozer pronto a ridurre in macerie una casa palestinese. Ora la situazione a Rafah è persino più grave. Non è da escludere che tanti, in cerca di scampo, proveranno a passare la frontiera e a riversarsi nel Sinai. Nessuno può prevedere la reazione del Cairo che già all’inizio della guerra aveva ammonito il gabinetto di guerra presieduto da Benyamin Netanyahu dallo spingere i palestinesi nel territorio egiziano, dall’innescare la «Nakba di Gaza» che non pochi ministri e deputati israeliani avevano invocato. Secondo indiscrezioni il presidente egiziano El Sisi avrebbe chiesto all’Amministrazione Biden di tenere a freno l’offensiva israeliana a Rafah dove si trovano oltre un milione di sfollati e di abitanti della città. Civili che tremano, non sanno cosa fare, si sentono in trappola. Solo qualche ora fa in centinaia avevano festeggiato la notizia data dal portavoce del governo del Qatar di un accordo di tregua ormai fatto tra Israele e Hamas. Poi su quei primi entusiasmi è stata gettata acqua gelida.  Il movimento islamico sta studiando ancora la proposta, Israele tace. Attraverso uno dei suoi leader all’estero, Osama Hamdan, Hamas ha fatto sapere di aver chiesto la scarcerazione da parte di Israele anche di prigionieri politici di spicco come Marwan Barghouti (il «Mandela palestinese») e Ahmad Saadat (il leader del Fronte popolare) in cambio della liberazione dei 132 ostaggi (una trentina sarebbero morti) portati a Gaza il 7 ottobre assieme ad altri 110 tornati a casa a fine novembre. Secondo le indiscrezioni girate ieri, i sequestrati verrebbero liberati da Hamas a piccoli gruppi in un periodo di 142 giorni senza combattimenti.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Case date alle fiamme a Gaza nord, aiuti bloccati dalle proteste

«Tanti danzavano e cantavano giovedì, qui tutti vogliono il cessate il fuoco e la fine di questo massacro» diceva ieri Aziz Abu Samadana, sfollato da Gaza city a Deir al Balah e da oltre un mese a Rafah con la sua famiglia. «Stiamo cercando di capire che cosa accadrà – ha aggiunto -, se gli israeliani avanzeranno nella città e verso le tendopoli accadrà di tutto. Anche se la barriera lungo il confine è alta, sono sicuro che tanti tenteranno di superarla».

Ieri le forze israeliane hanno già bombardato la periferia di Rafah, l’ultimo rifugio. Non c’è nessun altro posto dove sfuggire all’offensiva militare. Altre migliaia di sfollati sono arrivate in questa zona negli ultimi giorni, portando i loro averi in braccio, su carretti e auto. Con loro tanti bambini. «Poiché è vicina alla frontiera da dove arrivano gli aiuti umanitari, a Rafah è possibile trovare un po’ cibo e avere una limitata assistenza medica, ci sono degli ospedali da campo. Adesso la gente si attende l’inferno anche qui», ci spiegava un giornalista di Gaza che abbiamo raggiunto su Whatsapp. Un inferno che rischia di travolgere le tendopoli improvvisate che offrono scarso riparo dal freddo e dalla pioggia e, malgrado ciò, sono sorte nel fango grazie alla incredibile forza di volontà che stanno mostrando i civili palestinesi da quattro mesi precipitati in condizioni di vita estreme.

«Rafah è una pentola a pressione colma di disperazione e temiamo per ciò che verrà dopo», ha avvertito Jens Laerke, portavoce di Ocha (Onu). E con la determinazione di Israele nel volere l’uscita da Gaza dell’Unrwa, l’agenzia dei profughi palestinesi, la catastrofe appare già scritta. Il bilancio di più di 27mila uccisi dall’offensiva israeliana, riferito dal ministero della sanità, salirà più in alto.

L’Unicef intanto calcola in 17.000 i bambini di Gaza orfani o separati dalle loro famiglie durante il conflitto.

* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto