Ungheria, caso Salis. L’indifferenza disumana e degradante
Due mesi sono trascorsi invano, da quando la prima lugubre parata della prigioniera nel tribunale di Budapest aveva aperto gli occhi a chi aveva scelto di non vedere quello che stava subendo nelle carceri ungheresi
Forse era difficile aspettarsi di meglio, sicuramente peggio di così l’udienza di ieri nel tribunale di Budapest per Ilaria Salis non poteva andare.
Per lei che trascinata in catene davanti ai suoi giudici, ai familiari, agli amici e ai parlamentari venuti dall’Italia, è tornata rapidamente in carcere e ci dovrà restare, essendogli stata negata la possibilità di scontare la detenzione ai domiciliari.
Ma non solo per lei, visto che l’ordine giudiziario ungherese e il suo governo – ormai impossibili da tenere distinti – hanno approfittato dell’occasione per esercitare una prova di forza nei confronti del governo italiano e della sua opinione pubblica.
Prova tanto più vigliacca e miserevole perché fatta sulla pelle di una giovane donna già provata da oltre un anno di carcere in condizioni pesantissime. Pare che sia stata lei, Ilaria Salis, ad accettare di essere fotografata e ripresa mentre la trascinavano con i polsi stretti da una catena, legata a un guinzaglio di acciaio. Lo ha fatto per mostrare al mondo, ma innanzitutto al suo paese, a che punto di degrado è arrivata la cosiddetta giustizia ungherese nei suoi confronti.
Le intenzioni di chi ha catturato e diffuso le immagini sono sicuramente queste: il desiderio di denunciare lo scandalo per provare a fermarlo. Eppure non si può non provare fastidio, persino prima che pietà, per l’esibizione ripetuta di questa prigioniera.
Due mesi sono trascorsi invano, da quando la prima lugubre parata della prigioniera nel tribunale di Budapest aveva aperto gli occhi a chi aveva scelto di non vedere quello che stava subendo nelle carceri ungheresi (su queste pagine ne avevate letto dal novembre scorso).
Innanzitutto dunque al governo italiano, completamente assente fin lì attraverso la sua rappresentanza diplomatica. E troppo impegnato in patria a inseguire un garantismo immaginario e un assai concreto populismo penale tarato sui giovani e gli avversari politici per spendere qualche energia in una causa dove la negazione dei diritti elementari dell’indagata non può essere più evidente.
Eppure, dopo che lo scandalo era conclamato, il governo italiano è riuscito a fare anche peggio.
Trattato con evidente fastidio dai nostri ministri – non essendo la protagonista un prete accusato di torture in Agentina, al quale concedere tutta la collaborazione, al punto da negare l’estradizione – il caso Salis è rimbalzato per anticamere governative, inseguito dalla raccomandazione dei titolari di giustizia ed esteri: «Non facciamone un caso politico».
Ma non essendo un caso sportivo e non peccando le autorità ungheresi di scarso fair play, la raccomandazione si è rivelata disastrosa. Né a nulla è valso il rapporto privilegiato o sono servite l’amicizia ostentata nei vertici europei e la ben nota affinità ideale tra Meloni e Orbán a favorire soluzioni meno disumane.
Che sia stata incapacità diplomatica o scarsa attenzione a una vicenda che ha per protagonista una donna antifascista, o magari entrambe le cose insieme, il fallimento del nostro governo è totale. La soddisfazione di Orbán immaginiamo piena.
La contemporanea decisione della Corte di appello di Milano di negare l’estradizione di Gabriele Marchesi, gravato dalle stesse accuse in Ungheria, per evitargli i trattamenti disumani e degradanti ai quali è sottoposta Ilaria Salis, è anche questa una condanna per l’inerzia del nostro governo. E i consigli che i nostri ministri si erano sentiti di rivolgere alla difesa di Salis, chiedere i domiciliari come strada per risolvere il caso, suonano adesso come una terribile beffa.
L’Ungheria è in tutta evidenza uno stato che non rispetta gli standard minimi di civiltà per stare nell’Unione europea. Ma è oggi una solida alleata della nostra maggioranza, ancor di più alla vigilia delle elezioni. E il problema in fondo è tutto qui.
* Fonte/autore: Andrea Fabozzi, il manifesto
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