Quei profeti dell’ambiente

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L’ambientalismo ha molti padri. Tra questi il primo è l’ecologismo in senso stretto, che individua nell’interconnessione tra le diverse specie di un territorio l’equilibrio che determina la “capacità  di carico” dell’ecosistema: oltre il quale vengono meno le basi della sopravvivenza. Questo vale anche per il “carico” che la specie umana impone all’ambiente. Pioniere di questo approccio, con una forte impronta etica, il naturalista statunitense Aldo Leopold (1887-1948). Il secondo padre è consumerismo: l’attenzione per i rischi connessi ai nostri consumi è stata gradualmente estesa al ciclo di vita di questi beni e al loro impatto. In Germania l’ambientalismo ha avuto fin dagli inizi fondamenti scientifici solidi perché si è innestato su una cultura di del consumatore che in Italia è stata sottovalutata; tanto che la proposta di Vittorio Foa (1910-2008) di includere nella Costituzione la tutela del consumatore era stata bocciata. In Italia hanno avuto invece un peso notevole, anche culturale, le lotte sindacali per la tutela della salute e per il risanamento dei luoghi di lavoro. Tra i padri di questa cultura, Ivar Oddone della Cgil di Torino e Giulio Maccaccaro (1924-1977) dell’Università  di Milano. Un quarto filone è costituito dalle campagne per la tutela del paesaggio e dei beni culturali. In prima fila fin dall’inizio in questo campo Italia Nostra e il giornalista Antonio Cederna (1921-1996). Queste campagne, oggi purtroppo trascurate, hanno innescato le mobilitazioni contro le centrali nucleari che hanno tenuto a battesimo il movimento ambientalista italiano negli anni ’80. C’è infine l’ambientalismo dell’establishment promosso dal Club di Roma – fondato dall’italiano Aurelio Peccei (1908-1984) – con il rapporto I limiti dello sviluppo (1972): uno studio che segnalava l’impossibilità  di procedere con una crescita economica e un prelievo di risorse illimitati. Purtroppo le classi dirigenti di tutto il mondo hanno dimenticato quella lezione e ripetono come un disco rotto che l’economia deve “tornare a crescere”. Alcuni paesi ci riescono, altri no; ma stanno sempre peggio sia gli uni che gli altri. Sembrava che con il summit mondiale di Rio de Janeiro (1992) fosse intervenuto un ripensamento. Ma non era così. Oggi, eredi di quel tema – lo “stato stazionario” dell’economista Herman Daly – sono i fautori delle “decrescita felice”: un obiettivo sacrosanto, in una formula che rasenta l’ossimoro. Che provenisse dai vertici governativi, da sparuti gruppi fondamentalisti o dall’associazionismo democratico, l’ambientalismo ha vivacchiato per anni ai margini dei processi che governano l’economia globale. Gli ambientalisti erano “per antonomasia” quelli che sanno dire solo No. Le cose serie si facevano altrove, con l’industria, il petrolio, il nucleare, gli ogm, la speculazione edilizia, gli inceneritori, la guerra. «Volete ripulire il mondo? – ci veniva detto – Fate pure. Ma lasciatecelo inquinare in pace; per il bene di tutti». Non è più così. Le pratiche marginali e le battaglie di principio hanno ceduto il passo alla consapevolezza che difendere l’ambiente è questione di vita o di morte per l’intero pianeta; per salvarlo occorre prendere di petto il sistema industriale e il modello di consumi che lo alimenta e promuovere una riconversione radicale dell’apparato produttivo. “Conversione ecologica” la chiamava Alex Langer (1946-1995). I semi del suo insegnamento germogliano. Per ora sono solo idee e “buone pratiche”. Presto saranno fatti: imposti dalla forza e dalle ragioni di miliardi di uomini.


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