Il mondo salvato dalle metropoli del futuro

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E però, mentre la risposta degli stati nazionali è stata nel corso della storia la militarizzazione del conflitto, le città  hanno teso a gestire i conflitti con i commerci e con l’attività  civica. La guerra fa parte del dna degli stati nazionali; non però di quello delle città , salvo naturalmente che non siano fortezze militari o città  stato, come Genova nel 1500. Studiando le storie delle città  ne emerge una dialettica interessante, che contiene un’importante lezione per i nostri tempi. Spesso il superamento di conflitti urbani ha portato a un allargamento dei diritti dei cittadini. Uno dei soggetti specifici di questa dialettica è il gruppo degli esclusi: minoranze di immigrati, cittadini che professavano la religione “sbagliata”, minorati fisici e psichici. Quando questi (e quelli che lavoravano con loro) chiesero e ottennero diritti d’inclusione, l’effetto fu che ne vennero rafforzati anche i diritti dei già  inclusi – i cittadini. Il fatto che noi inclusi abbiamo visto i nostri diritti rafforzarsi quando gli esclusi sono riusciti ad ottenerne alcuni è in netto contrasto con l’opinione della società  in generale, che sia in Italia, negli Stati Uniti o nel resto d’Europa. L’idea più diffusa, alimentata dalla paura e dall’insicurezza, è che ciò che l’immigrato o l'”altro” guadagna costituisce per noi inclusi una “perdita”. Ma non c’è niente di più sbagliato: l’esclusione e la discriminazione sono un cancro nel sistema sociale generale. È interessante notare come da più indagini condotte in diversi paesi del mondo (ad esempio la Pews global value survey) emerge che quegli stessi cittadini che “odiano” gli immigrati, alla domanda su come siano gli immigrati vicini di casa o residenti nello stesso quartiere, rispondano in generale: «Oh, no, loro sono ottime persone». Insomma, se si arriva a conoscere l'”altro” si riesce a vederlo come essere umano. Le città  sono spazi di intense vicinanze. L’affollato centro cittadino è uno spazio con le sue regole invisibili: per quante volte ci si scontri con gli altri passanti nella folla frettolosa non si percepisce né pericolo né offesa, si procede nel proprio cammino. Ma se uno ti viene addosso nel tuo tranquillo quartiere, quell’urto assume il significato di violenza. Quelle regole invisibili che valgono nel centro delle città  sono un importante collante della società  civile, che dobbiamo mobilitare per fare della città  una città  aperta. Oggi le città  stanno perdendo la capacità  di fare la società  civile e stanno diventando il terreno di diversi nuovi tipi di conflitti estremi, come la guerra asimmetrica e la pulizia etnica e sociale. Inoltre, gli spazi affollati e conflittuali di città  schiacciate dalla disuguaglianza e dall’ingiustizia possono anche rendere più acuti e confusi vari tipi di conflitti secondari: dalle lotte per il commercio della droga alle catastrofi ambientali che incombono sul nostro futuro. Tutto ciò mette a repentaglio le tradizionali capacità  commerciali e civiche che hanno fatto sì che le città  evitassero di cadere nella guerra quando hanno dovuto affrontare dei conflitti e riuscissero altresì a incorporare le diversità  di ceto, di cultura, di religione e di etnia. Lo sconvolgimento dell’ordine urbano fa parte di un più ampio sovvertimento delle logiche organizzative del nostro presente. Questo a sua volta destabilizza la logica che ha messo insieme territorio, autorità  e diritti nella struttura organizzativa preminente dei nostri tempi, vale a dire lo stato nazionale, argomento questo che ho trattato nel mio libro Territorio, autorità , diritti (Bruno Mondadori, 2009). Quel tipo di ordine urbano che ci ha regalato in Europa la Città  Aperta, con le sue magnifiche piazze e gli edifici pubblici c’è ancora, ma sempre più come ordine visuale e sempre meno come ordine sociale. Cosa abbiamo, quindi, di fronte a noi? Ironicamente, ciò che più ci può aiutare ad andare avanti è il fatto che questo è anche un momento in cui le difficoltà  sono maggiori delle nostre differenze (guerra asimmetrica, catastrofi ambientali, gravi disuguaglianze) e stanno incominciando a rendere il nostro attuale modo di vivere non più sostenibile. Noi ora sappiamo che questo acuto senso di ingiustizia, di vita non sostenibile, è una delle ragioni principali di quello che abbiamo visto a Tunisi e al Cairo e ad Alessandria e poi ancora in altre città : il coraggio di opporsi al potere militare solo con il proprio corpo e con la propria voce. Sono la gravità  dell’ingiustizia e la non sostenibilità  dell’ordine economico, politico e ambientale che possono rappresentare la spinta per reinventare quella capacità  delle città  di trasformare il conflitto in apertura anziché in guerra. Ma non sarà  l’ordine che conosciamo della Città  Aperta e della società  civile come siamo abituati a rappresentarla, soprattutto nella tradizione europea. Sarà  necessario cambiare le fondamenta, compresa una specie di denazionalizzazione del nostro senso di sicurezza e una cittadinanza cosmopolita come quella esaminata in un importante progetto a lungo termine, quell'”Educazione al cosmopolitismo” organizzata dalla Fondazione Intercultura Onlus e indirizzata ai giovani. È nelle metropoli che questo tipo di progetto ha una possibilità  di riuscita: e più diversificata e complessa è la città , maggiori sono le probabilità  di successo. In questo senso la città  globale è il terreno adatto per questo tipo di lavoro: ha internazionalizzato l’economia ed è venuto il momento di internazionalizzare le genti e le culture. (Traduzione di Claudia Chiaperotti)


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