Al via il welfare alla cinese
La legge è il primo tentativo organico di trovare risorse per finanziare lo stato sociale. In estrema sintesi, prevede che sia imprese sia dipendenti che operano e risiedono in Cina paghino le tasse che andranno poi a finanziare pensioni, sistema sanitario, sussidi di disoccupazione, infortuni sul lavoro e maternità .
Si applica anche agli stranieri che da più di sei mesi lavorano in Cina, e qui sorgono i problemi. Se autorità e commentatori locali sono infatti concordi nel sostenere che la legge “assicurerà ai dipendenti stranieri gli stessi benefici dei cinesi” (nonché i doveri), il Wall Street Journal e alcune imprenditori occidentali si sono già affrettati a sottolineare come Pechino intenda far pagare ai cosiddetti expat il proprio welfare.
I circa seicentomila stranieri che lavorano in Cina, di fatto, pagheranno le tasse e potranno accedere ai servizi previsti dalla legge. Nulla di strano: giusto per fare un esempio, anche un italiano che vive e risiede in Svezia paga tasse e contributi previdenziali che poi gli ritorneranno sotto forma di cure sanitarie e pensione d’anzianità .
Nel malcelato fastidio espresso dal capitalismo occidentale c’è sicuramente un aspetto ideologico: la salute non è un diritto, ma una merce che si paga; e per la pensione ci sono le assicurazioni private. Ma il problema sembra risiedere soprattutto nella traduzione nel particolare contesto cinese di un principio condiviso dai più e della conseguente norma di legge.
Prima di tutto, non è ancora chiaro a quanto ammonteranno le aliquote e, così pare, le autorità locali avranno ampia discrezionalità in merito. In Cina non è raro che i dettagli di una legge emergano mesi dopo la sua entrata in vigore, il rischio è che un eccesso di discrezionalità determini arbitrio. Se i contributi saranno analoghi a quelli dei cinesi, si calcola che se ne andranno in tasse il 37 per cento dei profitti mensili di un’azienda e l’11 per cento del salario di un dipendente. Il blog Shangaiist traduce questa percentuale in moneta sonante: ogni lavoratore potrebbe costare alla sua azienda fino all’equivalente di 450 euro mensili in contributi; 130 euro saranno a carico del lavoratore stesso. Ma sono solo previsioni e per avere la certezza bisognerà attendere.
La seconda obiezione riguarda i contributi pensionistici. La legge stabilisce che un dipendente straniero deve aver vissuto almeno quindici anni in Cina per avere diritto a una pensione. La maggior parte dei lavoratori stranieri pratica invece un’emigrazione mordi e fuggi, resta oltre Muraglia per periodi inferiori. Rischiano di perdere i contributi? Le autorità cinesi hanno specificato che, con appositi accordi, gli anni di contributi potranno essere conteggiati anche dopo il ritorno in patria.
C’è poi il problema di chi ha già un’assicurazione privata stipulata nel Paese d’origine. In questo caso, le autorità cinesi parlano di “accordi di sicurezza sociale bilaterali” con i singoli Paesi d’appartenenza: con Germania e Corea del Sud esistono già .
Infine ci sono perplessità sulla qualità dei servizi: perché, sostengono gli scettici, un dipendente straniero dovrebbe pagare per un sistema sanitario pubblico di cui non si conosce l’efficienza? Al di là del fatto un’obiezione del genere potrebbero farla anche i lavoratori cinesi, questo è il rischio che si corre un po’ dappertutto nel mondo. E finché in Cina non si inaugurerà un sistema sanitario pubblico universale, non si potrà neanche verificare la sua efficienza. L’Occidente, detta diversamente, non può criticare la Cina perché non si conforma ai diritti come li intendiamo noi, e poi continuare ad attaccarla quando decide di farlo.
Il sospetto è che però ci sia qualcosa che i critici occidentali della legge non vogliono dire: il fatto cioè che un welfare cinese, e la necessità di finanziarlo, renda meno conveniente esternalizzare le produzioni in Cina. Più tasse, più costo del lavoro, anche per i recenti aumenti salariali determinati da alcune lotte vittoriose del proletariato cinese: c’è il rischio di dover traslocare in fretta e furia in qualche altra “fabbrica del mondo” più a buon mercato.
Qui l’Occidente misura una delle sue contraddizioni più stridenti. Da anni ormai, ci lamentiamo proprio perché le imprese nostrane delocalizzano oltre Muraglia, alla ricerca di vantaggi competitivi, e non creano più occupazione dalle nostre parti. Adesso che il modello cinese sta cambiando, temiamo di perdere proprio i vantaggi che ci spingevano là . Insomma, l’aumento del costo del lavoro e della fiscalità rende la Cina più simile a noi e non siamo più tanto sicuri che questo ci piaccia.
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