Good luck, Yingluck

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Ha rivinto il popolo, e con esso quel Thaksin Shinawatra che domina la scena politica thailandese da un decennio; ha perso l’elite incapace di capire che il Paese le è cambiato sotto i piedi, e un esercito abituato a giocare un ruolo politico di primo piano dietro le quinte. Con un trionfo oltre le aspettative, il Puea Thai di Thaksin si avvia verso il governo del Paese sotto la guida di Yingluck Shinawatra, sorella del magnate delle telecomunicazioni e futuro primo premier donna nella storia del Paese.

Il Puea Thai, sostenuto da quelle “camicie rosse” che l’anno scorso occuparono per due mesi il centro di Bangkok chiedendo elezioni anticipate, ha conquistato 265 seggi parlamentari su 500, relegando i Democratici del premier uscente Abhisit Vejjajiva: un collasso riconosciuto dallo stesso Abhisit, che lunedì mattina si è dimesso dalla guida del partito. Yingluck ha già  segnalato di voler cercare una coalizione con altri quattro partiti minori, portando la propria maggioranza a quota 299. Entro fine luglio, dopo il nulla osta reale, il governo Yingluck potrebbe già  entrare in carica.

Per i “rossi” è il momento di festeggiare dopo tanti dispiaceri: il golpe contro Thaksin nel 2006, due governi a lui fedeli sciolti dalla magistratura nel 2008 e poi il ribaltone parlamentare che portò al potere Abhisit, la cacciata dalle strade di Bangkok nel 2009 e soprattutto l’anno scorso, al termine di battaglie di strada costate 91 morti e 1.800 feriti e poi seguite dall’imprigionamento dei leader “rossi” e da una costante sorveglianza sugli attivisti nelle campagne. I Democratici avevano improntato la parte finale della loro campagna elettorale imputando quelle violenze ai sostenitori di Thaksin, ricordando le decine di roghi appiccati nella ritirata: tattica che ha parzialmente pagato nella capitale, dove due terzi dei seggi sono andati ai Democratici, ma che non ha portato voti nel resto del Paese.

Nel giro di due mesi, Yingluck ha fatto il salto da virtuale sconosciuta a primo ministro in pectore. Ora tutti lo giudicano un colpo di genio di Thaksin, che ha definito la sorella manager 44enne “il mio clone”. Ma ancora a inizio maggio, quella dell’ex premier sembrava una scommessa rischiosissima: senza esperienza in politica di fronte ad Abhisit, un rampollo dell’elite ancora “giovane” ma in Parlamento da quando aveva 27 anni, lei è però cresciuta prepotentemente nel corso della campagna elettorale. Imbeccata da Thaksin dal suo autoesilio, coadiuvata da un’eccellente squadra di consulenti, la fotogenica Yingluck ha martellato con le sue promesse elettorali, evitando i dibattiti in tv con l’Abhisit dalla parlata fine. Ha compattato la base – formata dalle classi medio-basse e dal popoloso nord-est rurale – puntando sull’ovvio marchio di famiglia: “Datemi una chance come l’aveva data a mio fratello!”, diceva nei suoi comizi di fronte alle platee “rosse”. Ma in altre occasioni è stata abile a sfumare i toni e incentrare l’attenzione sul suo personaggio, riuscendo a convincere diversi elettori inizialmente non schierati nel campo pro o contro Thaksin.

Prima del voto, mentre i sondaggi certificavano l’avanzata di Yingluck, nel Paese le voci di un imminente colpo di stato si diffondevano senza sosta. L’entità  del successo del Puea Thai, però, sembra ridurre almeno a breve termine il rischio che le influenti forze armate – autrici di 18 golpe dal 1932 a oggi – decidano di sovvertire la volontà  popolare. Più probabile, nel caso l’establishment intendesse mettere i bastoni tra le ruote, che un sistema giudiziario considerato ostile al Puea Thai possa tornare in gioco, specialmente se Thaksin mettesse in proposito la sua promessa di tornare nel Paese, dove l’aspetta una condanna a due anni per corruzione. Ma l’ex primo ministro, dopo la vittoria, sta usando già  toni improntati alla riconciliazione: prima ha annunciato di voler tornare “solo al momento giusto, per non creare problemi”, poi ha assicurato di “non voler più tornare al potere”.

Il quarto successo elettorale consecutivo del campo pro-Thaksin, dopo anni di demonizzazione da parte dei media in mano all’establishment di Bangkok, conferma che la Thailandia – piaccia o meno – è cambiata. Il patto sociale che ha funzionato per mezzo secolo, costruito sull’acquiescenza delle campagne e del “popolino” di fronte all’alternanza di grigi primi ministri e generali nella fiducia che il venerato re Bhumibol sapesse ciò di cui aveva bisogno il Paese, si è spezzato. Thaksin è stato il primo premier a costruirsi una base elettorale sua, in un’era in cui le arretrate campagne colmavano in fretta il divario con le città  e la velocità  delle informazioni si è impennata: forte della sua popolarità , ha sfidato l’establishment non accettando le regole non scritte su cui si basava la gestione del potere. L’elite lo accusa di avere tendenze repubblicane; e anche se lui nega, la “Bangkok bene” lo vede come una minaccia all’ordine costituito.

Ora che la sorella può governare al posto suo, Thaksin in effetti non sembra aver bisogno di tornare nel Paese: dal suo autoesilio a Dubai, viaggiando come spesso fa, può controllare meglio i suoi affari in tutto il globo. Ma l’ego straripante dell’uomo potrebbe un giorno aiutarlo ad autoconvincersi che è un suo diritto tornare. Un’elite thailandese silenziosamente angosciata dal progressivo declino fisico del sovrano – 83 anni e in ospedale dal 2009 – non vorrebbe però più vederlo in circolazione, anche nel caso ora tolleri un governo della sorella. E se lui mostrerà  davvero di voler rimpatriare, la “riconciliazione” promessa ora da Yingluck potrebbe svanire molto velocemente.


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