Cooperanti morti a Kabul: «Inascoltati testi importanti»

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 Non sono bastati dodici mesi di indagini per fare luce sulla morte di Stefano Siringo e Iendi Iannelli, i due cooperanti italiani morti misteriosamente il 16 febbraio del 2006 a Kabul. Il pubblico ministero Luca Palamara ha infatti avanzato al gip Rosalba Liso una nuova richiesta di archiviazione, pur disponendo nello stesso tempo l’apertura di un nuovo fascicolo di indagini contro ignoti in cui si ipotizza il reato di peculato per una presunta distrazione di finanziamenti destinati alla cooperazione internazionale. Eppure le nuove testimonianze emerse in questi mesi contribuiscono a delineare un quadro più chiaro su quelle che potrebbero essere state le ultime ore di vita in Afghanistan dei due giovani romani. Al punto che la famiglia di Stefano Siringo, che da cinque anni si batte perché si arrivi alla verità  sulla morte di Stefano e Iendi si è già  opposta all’archiviazione del caso e chiesto un nuovo supplemento di indagini.Per gli inquirenti che per primi arrivarono nella stanza dell’Idlo, l’organizzazione per cui lavorava Iendi, a uccidere i due giovani sarebbe stata un’overdose da eroina pura al 90%. In pratica Stefano e Iendi sarebbero morti dopo essersi iniettati una sostanza talmente pura da non lasciare scampo. Una ricostruzione contestata dalla famiglia Siringo, sia perché non risulta da nessuna testimonianza che i due giovani facessero uso di droghe pesanti, sia perché convinta che dietro le due morti ci sia la scoperta, fatta da Iendi, di un presunto giro di false fatturazioni tra agenzie dell’Onu. Ipotesi resa più credibile da una serie di circostanze, come il fatto che la stanza in cui i due giovani sono stati ritrovati morti era chiusa dall’esterno e che tutto, dal mancato ritrovamento della siringa utilizzata per iniettarsi la droga, alla posizione dei corpi ritrovati distesi sul letto, fino ai vestiti appoggiati ordinatamente sulle sedie, sembrava messo a punto proprio per inscenare una morte accidentale. Ma anche perché Iendi prima di morire aveva accusato forti dolori allo stomaco, dei quali aveva parlato a Kabul con un collega prima di ritirarsi nella sua stanza dove era atteso da Stefano.

Circostanze che, per la procura di Roma, non sembrano però essere determinati. Sui corpi dei due giovani, scrive il pm, «non vennero trovati segni di puntura da siringa, da colluttazione o da lesioni traumatiche», né la stanza, stando alle testimonianze dei carabinieri intervenuti, appariva come una «artificiosa ‘messa in scena’». Mentre per quanto riguarda la chiave della stanza, si sarebbe trovata all’interno e non all’esterno della stessa. Nulla di fatto anche dall’esame di tabulati dei telefoni cellulari e dei computer, a parte l’abitudine di Stefano e Iendi di farsi qualche spinello tra loro o con qualche amico.
«In realtà  per noi le cose sono andate in maniera molto diversa», spiega l’avvocato Luciano Tonietti, legale della famiglia Siringo. «La decisione della procura di aprire un fascicolo contro ignoti per peculato dimostra che le preoccupazioni di Iendi non erano infondate. Ma quel reato non può vivere di luce propria, perché potrebbe essere il movente della morte dei due giovani. Già  adesso possiamo ipotizzare che Stefano e Iendi sono stati avvelenati attraverso un mix letale di sostanze stupefacenti e cibo, una tecnica utilizzata dai talebani contro i sovietici durante l’invasione dell’Afghanistan, come afferma un testimone». Secondo il legale, inoltre, altri due testimoni, determinanti per fare chiarezza su quanto avvenuto in Afghanistan, non sono stati ancora ascoltati dalla procura. «I carabinieri non sono riusciti a rintracciarli – prosegue Tonietti – , ma noi abbiamo fornito alla procura gli indirizzi dove è possibile reperirli. Speriamo che adesso, con un nuovo supplemento di indagini, si possa arrivare anche a loro».


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