Ricchezza e lavoro così la cultura aiuterà  il mercato

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E non si tratta solo di mancati investimenti – in calo da anni – o di storica carenza di strategia: serve un cambio di mentalità . Ci sono poche cose da fare subito e c’è un luogo comune da sconfiggere: la cultura non è un costo, al contrario – in tempi di crisi – rappresenta una possibilità  di crescita. Ecco perché Federculture (che rappresenta le aziende che operano nel settore) il Fondo ambientale italiano e l’Anci, l’associazione dei comuni, hanno lanciato un appello al governo Monti chiedendogli di fare alcune riforme (meno burocrazia, più agevolazioni fiscali e una spinta agli investimenti dal privato) e di cancellare alcune norme, inserite nel decreto sulle liberalizzazioni, che rischiano di dare al settore «un colpo mortale».
Volendo tradurre il discorso in cifre va detto che, nonostante la crisi, la cultura resiste. Produce il 2,6 per cento del Pil e occupa 1,4 milioni di lavoratori. Negli ultimi due anni ha subito un taglio degli investimenti pubblici per un miliardo di euro, ma nonostante la scarsità  di reddito pesi sui consumi delle famiglie, la «domanda» del settore è aumentata nel 2011 di oltre il 4 per cento. Garantire l’offerta, sostengono gli operatori, è diventato arduo. Alla carenza di investimenti (fra il 2010 e il 2011 le sponsorizzazioni sono crollate del 30 per cento) si aggiunge il rischio dell’immobilismo. Il decreto sulle liberalizzazioni, per esempio, prevede che le aziende speciali, quelle in house e le istituzioni – strutture «snelle» attraverso i quali un ente fa cultura – siano sottoposti a vincoli finanziari e burocratici che di fatto bloccano la possibilità  di programmare mostre e interventi con l’anticipo dovuto. «Senza autonomia gestionale la cultura muore – precisa Roberto Grossi, presidente di Federculture – Senza interventi nei prossimi sei mesi il settore rischia un crollo del 20 per cento». «La cultura è anche un settore economico – denuncia Grossi – ma spesso viene vissuta solo come un costo, o peggio ancora come una fila di poltrone da occupare». Il problema appartiene anche agli enti locali: «I comuni, in media, investono in cultura il 3,5 per cento della loro ricchezza, lo Stato si ferma allo 0,19. Siamo pronti a ragionare su sprechi ed efficienza – commenta Andrea Ranieri dell’Anci – ma non vogliamo interventi indiscriminati». Quello che le tre associazioni chiedono è molto pratico: una programmazione pluriennale dei fondi, parte della tassa di soggiorno destinata ai beni culturali, allineare l’Iva del settore a quella degli altri paesi europei, permettere che l’8 per mille possa essere destinato alla musica e al teatro, dare la possibilità  di scegliere l’ente culturale cui destinare il 5 per mille. Cose da fare subito perché non bisogna dimenticare – specifica Ilaria Borletti Buitoni, direttrice del Fai – «che attraverso la cultura cresce il valore morale, civile ed etico del Paese. Non basta risistemare i conti, serve uno “scatto”, ma senza cultura non si riparte».


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