Il premier apre al modello del Lingotto

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MILANO — Lo perdoni la platea, dice: «Un’ultima osservazione e su Fiat chiudo». Solo che lo ripete una volta, due, tre. E poi in realtà  non chiude ancora. E quando alla fine tirano le somme, gli industriali, anche chi non aveva immediatamente capito dove stesse andando a parare ed era anzi convinto fosse in arrivo una sparata anti-Lingotto, si ritrova ad applaudire l’approdo dalla parte opposta. Non soltanto Fiat occupa metà  dell’intervento di Mario Monti. È lo «spunto» che dichiaratamente «vorrei cogliere» per completare il discorso sul necessario «cambio di mentalità  in tutte le direzioni». Compresa questa, evidentemente. Confindustria. La «casa comune» che Sergio Marchionne e John Elkann hanno salutato mesi fa mettendo il dito proprio sulla piaga della «mentalità  da cambiare». L’associazione che verso «il potere e l’arroganza» del Lingotto — ex primo inquilino dalla fondazione — nutre mal di pancia storici e a cui quello schiaffo, l’ultimo, brucia al punto che molti non ne vorrebbero più sentir parlare, siano «i torinesi» a rimangiarsi accuse giudicate infondate e presuntuose.
Invece che succede? Che il premier, accolto da una standing ovation, interrotto in continuazione dal tifo, ringrazia gli imprenditori per il loro ruolo e l’appoggio «fondamentale» al Paese prima ancora che al governo. Ma poi è Fiat-Chrysler, che fa salire sul palco di casa «loro». È il «reprobo», il protagonista centrale del «loro» convegno per «Cambiare l’Italia».
È evidente dall’esordio, e qualcosa si era capito già  dopo l’incontro a Palazzo Chigi (definito «illuminante»), quale sia il messaggio che Monti vuole lanciare. Con chi, si senta più in sintonia. Ed è abile, sul palco. Non è solo per stroncare a priori la vecchia polemica sul fatto che di Torino è stato consigliere (un’éra fa: 1988-1993), che subito dopo la premessa sugli «spunti di mentalità » scandisce: «Io credo che il rapporto Italia-Fiat non sia sempre stato sano». Certo non quando lo Stato impedì la vendita dell’Alfa a Ford, elenca. Certo non quando venivano concessi aiuti a pioggia. Certo non quando (anche nell’epoca Marchionne) all’auto si elargivano incentivi.
Applausi a scrosciare. Torino ha quel che si merita, in sala qualcuno si sente vendicato. Però, dopo. Uno: «Ritengo improprio che in passato lo Stato sia intervenuto con i denari del contribuente per sostenere le aziende», dunque Fiat, sì, «tantissime volte», ma non da sola, ed è il fenomeno in sé che «io devo assolutamente impedire». Due: il concetto vale pure per «bellissimi progetti ideali come Roma 2020», e anche qui «ho il dovere di tutelare i cittadini che potrebbero dover pagare conseguenze di politiche sbagliate». 
Già  a questo punto, in sala, dovrebbe scattare un campanello. A spellarsi le mani sono tanti che l’Olimpiade l’avrebbero voluta. Poiché nessuno pare accorgersi della contraddizione è Monti, ironico, ad autosottolineare la frecciata: «Grazie, però stiamo attenti, i governi ottenevano applausi anche quando promettevano non rigore ma favore». Il che porta al terzo punto-Lingotto. La chiave della questione. Fiat com’è oggi, per il premier, non com’era ieri.
Fossero sintonizzati (e non è detto che così non sia), sarebbero Marchionne ed Elkann a sentirsi ora «correttamente interpretati». Dice il premier che «darebbe soddisfazione a un politico vecchia maniera» rivendicare di «aver insistito» con loro «perché investano in Italia». E certo, «ho fatto anche questo». Ma una cosa tutti dovrebbero capire: «Chi gestisce la Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere le localizzazioni più convenienti. Non ha nessun dovere di ricordarsi solo dell’Italia». No se non ci sono le condizioni. 
L’affondo cade qua. In quelle condizioni rientrano, ovvio, «produttività  e flessibilità ». Non vale però meno «il rispetto». L’Italia «può molto esigere», ma altrettanto «deve rispettare: non si può pensare che in un Paese, e in uno soltanto, a causa delle proprie radici un’impresa debba essere oggetto di un permanente scrutinio investigativo sulla politica industriale da parte di persone che non hanno particolare esperienza al riguardo». Si sente chiamata in causa Susanna Camusso («Il governo provi a capire cosa vuol fare la Fiat»). Lo sono in realtà , almeno sulla «competenza», più certi politici. E sul «rispetto», in fondo, lo è parte della stessa Confindustria. Che forse si convince, forse no. Ma scatta comunque in un’altra standing ovation.


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