Perché non si può cancellare il reintegro

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Il messaggio che viene dal quotidiano dei liberisti, propugnatore di formule che hanno portato l’economia mondiale al disastro, è musica soave per le orecchie del presidente del Consiglio. Monti, infatti, non intende recedere dal suo proposito iniziale. E il ministro Fornero promette che il licenziamento per motivi economici resterà  così com’è, con l’indennizzo ma senza possibilità  di reintegro nel posto di lavoro. La posizione del governo appare talmente ferma che il presidente del Consiglio, velocissimo ad apprendere l’arte della dialettica politica, avverte di non voler tirare a campare se il Paese non si sentisse pronto per le sue riforme.
Dunque la questione dell’articolo 18, semplificando, è questa: per mantenerci lontani dall’emergenza finanziaria è indispensabile che il reintegro, finora previsto, del lavoratore licenziato sia cancellato. Se l’azienda caccia un dipendente per dichiarati motivi economici il lavoratore non potrà  più sperare di tornare al suo posto, anche se un giudice dovesse valutare l’inconsistenza della motivazione, ma dovrebbe accontentarsi di un indennizzo. E poi si affiderà  alla “mano invisibile” del mercato per trovare un’altra occupazione. È questo il segno distintivo della flessibilità  in uscita proposta da Monti e Fornero, con tanti saluti al ventilato sistema tedesco condiviso da molti, al modello di garanzie del welfare europeo, alla storia e al diritto consolidato del lavoro in questo Paese. La domanda che emerge è questa: visto che tutti i partiti e tutti i sindacati italiani, con sensibilità  diverse naturalmente, sono pronti anche a discutere di questo argomento, non si può pensare di raccogliere l’esempio che viene dalla locomotiva europea, dalla Germania? A Berlino in caso di licenziamento l’azienda deve ascoltare il parere del consiglio di fabbrica. In ogni caso il dipendente licenziato può ricorrere al Tribunale del lavoro che decide tra l’indennizzo e il reintegro. Certo in Germania il lavoro è riconosciuto e rispettato dalle istituzioni, dalle imprese, dai partiti come uno dei fattori costitutivi della democrazia e la sua difesa è propedeutica allo sviluppo del Paese. La cogestione prevede la presenza dei sindacati nei consigli di gestione, i lavoratori scioperano raramente e la flessibilità  è governata con accordi tra le parti. Nessuno in Germania si sognerebbe di fare come Sergio Marchionne, compresi i licenziamenti dei tre operai di Melfi o dell’impiegato di Mirafiori, tutti reintegrati dal giudice. Qualcuno può immaginare un consiglio della Fiat o della Brembo con i segretari dei metalmeccanici e i sindaci di Torino e di Bergamo seduti accanto a Elkann e Bombassei? Pura fantascienza. Alla Volkswagen il rispetto tra le parti ha consentito di formulare oltre 30 orari di lavoro flessibili, con risultati record per l’impresa e i lavoratori.
A noi tocca, invece, una riforma che, accanto a novità  positive, dopo mezzo secolo restituisce alle aziende il potere di licenziare dietro il pagamento di una somma di denaro, si monetizza la perdita del posto sancendo per legge la prevalenza degli interessi dell’impresa che calcolando i suoi costi e i suoi benefici valuterà  se cacciare o meno un dipendente. La possibilità  del reintegro non è un regalo, ma un principio di uguaglianza della Costituzione. Non essendo riuscito a liberalizzare i taxi, il governo introduce una liberalizzazione dei licenziamenti individuali per motivi economici. Di questo passo torneremo al licenziamento ad nutum, con un semplice cenno del padrone? Ma guai ad opporsi perché il Corriere della Sera individua già  in questa critica i prodromi di antiche minacce e tensioni sociali.


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