L’italian job piace alla Cina: si può investire

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Il capo del governo italiano – il cui gradimento popolare crolla in patria (dal 62% al 44% in pochi giorni secondo gli ultimi sondaggi) ma che ha ricevuto l’elogio del Wall Street Journal («Monti fa la Thatcher») – incassa, alla vigilia della visita ufficiale a Pechino (dove sabato incontrerà  il premier Wen Jiabao) e si schermisce: a Seoul «ho colto i primi segni» di possibili maggiori investimenti, ma c’è bisogno «di tempo e di consolidare i risultati ottenuti finora». 
Sia come sia, è evidente che i leader cinesi giudicano positivamente le riforme strutturali messe in moto dall’esecutivo «tecnico» sostenuto da Pd, Pdl e Terzo polo. Del resto, ogni volta che nelle scorse settimane la stabilità  della moneta comune veniva messa a dura prova, Pechino ha sempre ripetuto la sua ricetta per uscire dalla cosiddetta «crisi dei debiti sovrani»: tagli alla spesa pubblica e mercato del lavoro più flessibile. Misure in linea con i diktat della cancelliera tedesca Angela Merkel agli Stati della periferia dell’euro e con la propaganda dei media della Repubblica Popolare, che dipingono «un’Europa che ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità » per la quale è arrivato il momento di stringere la cinghia. Provvedimenti che la Cina ha invocato come conditio sine qua non per rimpinguare il fondo «salva Stati» (meglio se attraverso il Fondo monetario internazionale, ritenuto nella gestione delle crisi più affidabile degli organismi Ue) con una parte delle sue riserve di valuta estera, pari a circa 3200 miliardi di dollari.
E comunque le autorità  cinesi, a partire dal China investment corporation (di cui Monti incontrerà  il presidente, Lou Jiwei), il fondo sovrano che amministra una parte di quel tesoro, hanno indicato la loro preferenza per le acquisizioni di aziende e il finanziamento di progetti infrastrutturali piuttosto che per un meccanismo di «salvataggio» che – nonostante i compromessi politici degli ultimi giorni – stenta a decollare e a convincere gli investitori.
I capitali cinesi si stanno indirizzando soprattutto in quei paesi europei in cui salari bassi e flessibilità  rappresentano realtà  consolidate. Un mese fa la Greatwall ha iniziato l’assemblaggio di automobili (con pezzi che arrivano dal porto cinese di Tianjin) nel villaggio di Bahovitsa, nel nord della Bulgaria: investimento massimo previsto 300 milioni di euro, 120 operai per produrre 50.000 auto all’anno e tre modelli – tra cui un Suv a basso costo – da destinare prevalentemente ai mercati dell’Europa dell’Est.
Nel giugno scorso il premier Wen ha annunciato investimenti per 400 milioni di euro in Ungheria: strade, un aeroporto per facilitare l’accesso delle merci cinesi e una grossa fabbrica di batterie per auto elettriche. Ed è in corso l’assalto – in Germania e Polonia – al settore strategico delle macchine utensili.
L’interscambio commerciale tra la Cina e i paesi dell’Europa centrale e orientale dal 2001 è cresciuto a una media del 32% annuo, decuplicandosi. 
Se il governo «tecnico» riuscirà  a estendere i contratti di apprendistato (flessibilità  in entrata) e a cancellare l’articolo 18 (in uscita) vincendo le resistenze dei sindacati («Monti fa la Thatcher») c’è da scommettere che i capitali cinesi accorreranno molto volentieri anche in Italia.


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