Milano, sotto torchio per sette ore l’ex assessore scaricato da Formigoni

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MILANO — Esce dopo sette ore e quindici minuti di interrogatorio filato. Racconta, sottolinea, precisa, aggiunge anche dettagli inediti. L’ex assessore alla Cultura della giunta Formigoni, Massimo Buscemi, entra prepotentemente nell’inchiesta che coinvolge proprio il suo compagno di partito: il governatore accusato di concorso in corruzione.
Buscemi lo ha fatto, nonostante la sua posizione non fosse proprio comoda. In questa inchiesta ricopre infatti una doppia veste: consigliere al Pirellone nelle file del Pdl, ma soprattutto genero di Pierangelo Daccò, il faccendiere molto vicino a Formigoni, il “risolvi problemi” delle cliniche private della Lombardia finito in carcere quasi un anno fa per il crac del San Raffaele prima — è già  stato condannato a 10 anni in primo grado — e poi per la sottrazione di 70 milioni di euro dalla Fondazione Maugeri di Pavia.
Da quel poco che è trapelato, i pubblici ministeri Laura Pedio e Gaetano Ruta hanno approfondito nel faccia a faccia proprio i rapporti tra Formigoni e il suocero di Buscemi. Chiedendo spiegazioni soprattutto su una intercettazione telefonica allegata all’inchiesta in cui il governatore è indagato per corruzione. Bisogna tornare indietro al 28 ottobre scorso. Buscemi registra sul suo telefono il dialogo con il presidente della Lombardia nel suo ufficio. L’esponente del Pdl è appena stato defenestrato dalla giunta dopo un rimpasto. È arrabbiato. Furente. «Esco dalla giunta in malo modo, sono lo zimbello di tutti», le parole intercettate di Buscemi. «Non è possibile Roberto — aggiunge — io vengo a guadagnare 2500 euro in meno in questo periodo qua, in cui abbiamo tutto bloccato ».
Travolta dal crac del San Raffaele, la famiglia Daccò è nel mirino delle indagini. Nemmeno due settimane dopo, il suocero finirà  in cella (dove si trova tutt’ora) per associazione a delinquere e bancarotta. Buscemi, per rendere più forte la sua protesta, usa parole forti e anticipa al governatore che la compagna «è stata chiamata in tribunale, e le chiederanno com’è questa storia della casa». Il nesso vola alla villa in Sardegna finita ora al centro dell’inchiesta per corruzione che coinvolge il governatore, venduta a un prezzo che l’accusa reputa fuori mercato proprio da Daccò a Formigoni. «Vogliono sapere (la procura, ndr), conto e ragione e come mai così poco… 3 milioni contro i 9-10 di valore commerciale». E poi le parole che sembrano un avvertimento: «No, guarda, siamo nella merda fino a qua».
Erano boutade quelle parole usate dall’ex assessore sbattuto fuori dalla giunta e deluso? La procura di Milano oggi sostiene che la villa sia stata effettivamente venduta sotto prezzo. E ieri, Buscemi, ha chiarito il contenuto di queste sue affermazioni, fatte ormai un anno fa senza sapere che sarebbero poi finite negli atti dell’inchiesta. Erano vere? Il quadro accusatorio contro il governatore lombardo, da ieri si è aggravato? Buscemi, uscito da una caserma, si limita a dire «di non poter rispondere a nulla perché vincolato dal segreto istruttorio». Alla domanda se l’ex assessore si è trasformato in grande accusatore del governatore, smentisce con un «non direi». La procura, dal canto suo, non commenta. Si sa solo che quello di ieri dovrebbe essere uno degli ultimi atti dell’inchiesta, e che l’interrogatorio è stato secretato per evitare fughe di notizie. Entro le prossime due settimane, i magistrati tireranno le fila, arrivando alla conclusione dell’inchiesta Maugeri. A oggi, una richiesta di rinvio a giudizio in cui compare anche il nome di Formigoni, appare più che probabile.


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