Harlem torna in trincea per Obama “Dobbiamo portare tutti ai seggi”

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NEW YORK — «Don’t forget Tuesday! Tuesday is Obama Day!» Suona gioioso nel cuore di Harlem il richiamo: martedì è il giorno di Obama, non dimenticatevi di votare. Lo grida il senzatetto che chiede l’elemosina alla fermata del metrò sulla 126esima strada, all’angolo con Lenox Avenue ribattezzata Malcom X Boulevard. Riscuote un successone. I clienti che escono dal ristorante “Sylvia’s, Queen of Soul Food” premiano con generosità  il vecchio homeless che s’improvvisa propagandista elettorale. Siamo nel cuore di Obama- land, quartiere storico dell’orgoglio afroamericano. Eppure anche Harlem oggi tradisce le sue incertezze, quattro anni dopo la storica vittoria del primo nero candidato alla Casa Bianca.
Un isolato più su, sulla 127esima, un negozio ha in vetrina due manifesti: il primo è “Harlem4Obama 2012”, locandina della cellula democratica di quartiere. A fianco c’è il manifesto sul 17esimo anniversario della “marcia di un milione” (celebre protesta di neri musulmani a Washington, finita in scontri violenti). Annuncia la conferenza del celebre predicatore ultra-radicale Louis Farrakhan sul tema “Maometto insegna come sconfiggere la povertà ”. Proprio mentre la destra razzista continua ad alimentare con messaggi subliminali la falsa leggenda di Obama kenyano e musulmano, la vera “nazione islamica” dei neri d’America considera questo presidente un moderato che non è riuscito a cambiare il destino della sua gente. Le famiglie di neri poveri che affollano la chiesa dell’Esercito della Salvezza sulla 138esima strada non si fanno illusioni su Obama Due. Per loro, con una disoccupazione che è il triplo della media nazionale, la vita quotidiana assomiglia da anni a quello spettacolo di precarietà  e insicurezza che ora domina i telegiornali solo perché dopo l’uragano colpisce i bianchi di New York e New Jersey.
Ma c’è un’altra Harlem che per Obama si batte fino all’ultimo minuto. La trovo finalmente spingendomi sulla 141esima, al quartier generale dei democratici. È qui che la base afroamericana organizza le operazioni “get-out-thevote”, letteralmente “tirar fuori” i voti uno per uno, andando a cercare gli elettori a casa. Partono a ondate i torpedoni pieni di militanti, diretti verso la Pennsylvania. «Tanto a New York noi si vince — mi dice Oscar Williams prima di salire a bordo — , ora le nostre forze sono preziose negli Stati vicini, quelli ancora in bilico, dove si gioca la partita decisiva di domani.
Guai se Mitt Romney dovesse sfondare in Pennsylvania, potrebbe esserci fatale». Sul marciapiede di partenza dei torpedoni una bancarella vende distintivi “Il cambiamento climatico è reale, Romney è falso”, messaggio d’attualità  nel dopo-uragano. Un altro distintivo evoca l’orgoglio “afro”, anche estetico: “Non importa come ti pettini i capelli, la più bella sei tu Michelle”.
In questa Harlem le librerie pubblicizzano i manuali Sat per preparare il test di entrata al college, qui abita un ceto medio afroamericano che s’identifica con la biografia dei coniugi Obama, ne condivide i successi, l’ascesa sociale, le frustrazioni. Kamali Carter, impiegata in uno studio legale, si distoglie un attimo dalle telefonate a ripetizione che sta facendo a una lunga lista di elettori: «L’altro giorno per via della paralisi del metrò mi trovo a condividere un taxi con una signora anziana, bianca. Mi apostrofa: non mi dire che voti Obama? Volevo risponderle: tu voti Romney perché sei bianca? È un insulto che fanno alla nostra intelligenza. Non votiamo per solidarietà  razziale. Lo ha detto il repubblicano Colin Powell, ex segretario di Stato di Bush: sono le politiche di Obama che ci convincono».
Lisa Jones Brown, 44 anni, sceneggiatrice tv, anche lei afroamericana, lo spiega così: «I miei genitori parteciparono alle battaglie per i diritti civili, io appartengo a una generazione più fortunata, ma ci sono altre forme di discriminazione, più sottili, negli ambienti di lavoro: le subisco come nera e come donna. Ecco, ciò che mi motiva a fare militanza in questi giorni è mia figlia di 7 anni. Voglio che cresca in un’America che assomiglia a Obama, non a Romney. Il repubblicano ci ricaccerebbe indietro di 40 anni. Sul controllo delle nascite, sulla salute, sulle diseguaglianze retributive, sui posti di lavoro: stanno lì le ragioni forti per votare democratico, non il colore della pelle di questo presidente». Ma non ha sentito una sorta di apatìa qui ad Harlem, per le delusioni di questo primo mandato? «Fino a quest’estate sì, la disaffezione c’era. Poi qualcosa è scattato. Le sporche manovre per limitare il diritto di voto delle minoranze, per introdurre ostacoli e controlli di ogni sorta ai seggi elettorali in chiave discriminatoria, questo ci ha ricordato il vero volto della destra, è stato un allarme». La Brown parte per Philadelphia, Pennsylvania, con sua figlia adolescente. Sa che è un lavoro duro, la “raccolta porta a porta” di tutti gli elettori: «A volte veniamo respinti malamente, altre volte troviamo una gran miseria, un disinteresse per la politica che nasce dalla disperazione ». Ma questo è il lavoro più prezioso nelle ultime ore della sfida che si gioca sul filo del traguardo: già  cominciano le prime contestazioni e ricorsi, in Florida, a conferma che ogni voto sarà  conteso.
Sul torpedone della speranza che parte da Harlem per i quartieri poveri di Philadelphia, c’è un anziano sindacalista nero: «Siamo noi i figli di p… che non piacciono alla destra. Salvo rivolgersi a noi quando anche la middle class ha bisogno di salvare la propria pensione, l’assistenza sanitaria agli anziani, il posto di lavoro minacciato dalle delocalizzazioni e dagli squali della finanza come Romney. Il voto di domani è un referendum sul ruolo dello Stato nell’economia, sui diritti di noi lavoratori ».


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