Martini, l’innovatore che unì Chiesa e società 

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Del resto non poteva essere diversamente. Il rettore della Gregoriana era più avvezzo all’ordine di un’aula di studenti che alle folle cittadine. Attraversò il centro di Milano per approdare in Duomo accolto da un pubblico composto ma freddo. Incuriosito dalla figura di un presule che non ricordava nei tratti e nel gesto nessuno dei suoi predecessori. Una domenica di febbraio un po’ buia nel periodo più tormentato degli anni di piombo. Quali potranno essere stati i suoi pensieri? E quanto doveva pesargli quell’incarico al quale mai aveva pensato prima nella sua vita? Chi scrive, giovane cronista, fu incaricato di fare un resoconto di quell’accoglienza che ai più sembrò poco più di un atto dovuto, di un gesto formale di cortesia.
Il gesuita Martini restò a lungo, nei mesi successivi, un personaggio misterioso che parlava con eccessiva lentezza, lo sguardo severo, complice la statura. Le parole, di rara profondità  spirituale ma semplici e chiare, parevano però cadere nel vuoto di una città  smarrita, come la pioggerellina fastidiosa che l’aveva accolto nella giornata della sua investitura alla cattedra di Sant’Ambrogio. Il nostro collega Walter Tobagi cadde sotto il piombo del terrorismo, un cancro italiano all’apparenza incurabile, il 28 maggio di quell’anno. Ricordo con dolore il giorno, ancora una volta piovoso, nonostante la primavera avanzata, dei funerali. E l’omelia di Martini ci colpì al cuore. Non solo noi che conoscevamo Walter e ne piangevamo la scomparsa. Mentre l’arcivescovo parlava in una chiesa del Santo Rosario affollata fino all’inverosimile, notai le lacrime delle persone accanto a me che, al massimo, l’avevano letto qualche volta e non l’avevano forse mai sentito nominare prima. Quella fu, secondo me, la svolta, perché il velo della sofferta rassegnazione con la quale si assisteva, impotenti, alla catena di delitti si squarciò d’incanto.
Un’occasione così triste si trasformò nel grido di una città  che diceva no al terrore e alla violenza. E lo faceva con l’espressione austera ma coraggiosa di un sacerdote, l’unico volto nuovo delle autorità  cittadine – e dunque destinatario di attese e speranze anche della parte più laica ­ che riassumeva su di sé la voglia di riscatto di una intera comunità . «Solo un uomo ispirato può generare fiducia», scrive nella biografia del cardinale (Il Profeta, Mondadori) il nostro collega del Corriere Marco Garzonio, che lo ha seguito per trent’anni. E nella liturgia ambrosiana c’è una preghiera in cui i fedeli invocano il dono di avere pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze. L’austero e distaccato professore aveva indossato le vesti grigie del dolore civile, aveva dato colore al senso di appartenenza di una comunità  e vinto la solitudine della paura degli anni di piombo. Era diventato un defensor civitatis. Qui sta l’essenza del messaggio martiniano e la modesta spiegazione del perché il suo servizio pastorale abbia conquistato i cuori anche dei non credenti e abbia resistito soprattutto al tempo. Una parabola inossidabile. Martini ridiede linfa spirituale a una società  civile sfibrata dai contrasti, la rese più consapevole delle proprie virtù, orgogliosa di essere comunità . In una semplificazione estrema: offrì una spiegazione di senso della vita a tutti, soprattutto ai non credenti che si avvicinavano ai suoi scritti o erano affascinati dai suoi gesti, ma instillò il dubbio della ragione anche tra le fila ecclesiastiche con le sue «scandalose» posizioni sui temi bioetici (celebre la sua lettera sul caso Welby ospitata dal Sole 24 Ore il 21 gennaio del 2007) e sugli errori della Chiesa.
Il pastore che seppe raccogliere attorno a sé il gregge disperso e deluso della maggiore tra le diocesi, il fondatore della cattedra dei non credenti, il gesuita aperto e rispettato in tutto il mondo, divenne per la gerarchia un personaggio scomodo. Più che un eretico, un nemico, un innovatore spericolato, responsabile a detta dei suoi detrattori, che non gli hanno risparmiato frecciate velenose anche dopo la morte, di un progressivo scivolamento della fede cattolica nella leggerezza secolarizzata del protestantesimo o nella impalpabile realtà  anglicana. Insomma, il cardinale che più ha unito persone diverse e apparentemente lontane intorno alla Parola e al messaggio evangelico è stato, nello stesso tempo, la porpora che ha più diviso e inquietato la Chiesa, forse perché l’ha posta di fronte a interrogativi scomodi che non potranno essere a lungo ignorati. Con la sua critica all’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, che vietava la contraccezione, aveva semplicemente anticipato molte delle discussioni degli anni successivi. Il cardinale era consapevole dell’estrema sofferenza che gli uomini di culto provano nel non saper rispondere fino in fondo alle domande dei fedeli. Martini intravedeva in questo ostinarsi della Chiesa nella rigidità  dottrinaria sui temi della modernità  una delle cause del suo declino e del progressivo distacco di molti fedeli. Ai divorziati i sacramenti sono preclusi, ma non si può certo dire che proprio per questo conducano una vita contraria alla sostanza dei precetti cristiani.
La Chiesa conciliare seppe, con Giovanni XXIII e con Paolo VI, aprire le finestre e scuotere le fondamenta di un’istituzione millenaria, che è radice insostituibile del nostro presente, rilanciando il messaggio evangelico. Lo stesso cardinale Ratzinger, giovane sacerdote al Concilio, ne sottolineò lo «straordinario balzo nel presente». E proprio nel momento in cui, impoveriti dalla perdita di senso della vita civile, all’indomani del secolo delle ideologie, quando vasti strati della società  guardano al mondo cattolico come l’unico rifugio di valori universali e di rispetto della persona, la Chiesa appare in difficoltà  nel cogliere un’ansia diversa di partecipazione. Non sente la necessità  di fare un altro «grande balzo nel presente», si consegna a un destino di minoranza, condannata a perdere la sfida con la secolarizzazione. Martini, che fu in vita un disciplinato membro della gerarchia ecclesiastica ma conservò sempre la libertà  delle proprie idee e non ebbe mai paura di professarle e sostenerle, aveva semplicemente intuito questa deriva pericolosa, in particolar modo nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme, in dialogo con un altro grande gesuita, Georg Sporschill, un libro non a caso uscito in tedesco e tradotto con una certa difficoltà  in italiano. Una Chiesa che ammette i propri errori ed è vicina, condividendone gli interrogativi più intimi, ai fedeli, dimostra la propria grandezza e non ha timore di confrontarsi con nessun’altra fede, nemmeno con quelle che appaiono più forti e granitiche.
Le proprie idee Martini le espose, poco dopo la morte, nel 2005, di Giovanni Paolo II, partecipando a una riunione della congregazione generale, presente il decano Ratzinger: evangelizzazione, ecumenismo, scelta per la pace e per i poveri. Una Chiesa con meno paramenti, più unita dell’attività  pastorale, di cui la società  ha immenso bisogno, e meno divisa nella gestione di un potere così fragile e, purtroppo, così drammaticamente secolarizzato.


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