Il Professore e la legge dei voti

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E se il richiamo fatto ieri dal presidente della Repubblica a questa semplice norma può sembrare scontato, in realtà  quella stessa considerazione nel contesto italiano assume pure altri significati.
Anche Mario Monti che è approdato alla presidenza del consiglio in virtù di un esecutivo tecnico ed è stato sostenuto da una “strana maggioranza”, se intende dare un seguito alla sua esperienza dovrà  allora conquistarsi il consenso. E non solo in Parlamento, ma anche tra gli elettori.
Napolitano ha di fatto posto la parola “fine” su quello che molti hanno definito “l’esecutivo del Presidente”. Un governo che ha trovato il suo perno “politico” nel capo dello Stato. Una “squadra” che ha preso corpo dinanzi alla terribile emergenza economica che il Paese stava affrontando e che ancora deve affrontare, grazie alla scelta del Colle. Ha trovato origine appunto nella autorevolezza del Quirinale e nella disponibilità  di una maggioranza di parlamentari regolarmente eletti.
Ora, però, a due mesi dalle elezioni, si può dire che quella formula è finita. Le urne dovranno indicare una maggioranza politica e un premier politico. E se il Professore vorrà  davvero sottoporsi al giudizio degli elettori, allora deve sapere che la regola non cambia. Contarsi in democrazia significa anche correre il rischio di non vincere. Del resto, è risaputo che il presidente della Repubblica preferirebbe per Monti un ruolo diverso. Da tempo gli ha consigliato di rimanere ai margini della contesa politica per tutelare l’immagine di senatore a vita e il suo ruolo di imparziale riserva della Repubblica. Non vuole che il Professore si macchi nello scontro tra partiti. È evidente che la sintonia registrata tra i due in questo anno di attività  ha subito una incrinatura nelle ultime settimane. Il rammarico manifestato da Napolitano per la «brusca interruzione della legislatura» ne è il segno più evidente.
Ma in questa confusa vigilia elettorale, c’è un elemento ulteriore che nessuno può permettersi il lusso di sottovalutare. Il voto del prossimo febbraio non si configura solo come una fisiologica scadenza, ma traccerà  la fine del ventennio berlusconiano. Il sistema politico verrà  rivoluzionato e si creerà  con il tempo un nuovo equilibrio. Probabilmente la prossima sarà  la legislatura che consentirà  alle forze politiche di dar vita ad un assetto più moderno ed europeo. Nel quale la sinistra progressista e democratica si possa finalmente confrontare con un centro accettabile, riconosciuto dalla comunità  internazionale e soprattutto deberlusconizzato. Ma per fare tutto questo, le forze coinvolte in questo compito devono interrogarsi sulla necessità  di non rompere quel filo che sin qui le ha legate. L’idea di elaborare una piattaforma riformatrice comune per la prossima legislatura rischia a questo punto di dissolversi, se gli schieramenti guidati da Bersani da una parte e da Monti, Casini e Montezemolo dall’altra si rivolgeranno agli elettori senza un minimo raccordo. Una fase come questa che probabilmente segnerà  il passaggio da una stagione ad un’altra della Repubblica ha bisogno di un maggiore grado di concerto tra i più responsabili. Va governata fin da ora, non si può rinviare l’intesa a dopo il voto. E l’incontro di ieri tra il segretario del Pd e il premier non ha fornito alcuna risposta da questo punto di vista. Anzi, il rapporto tra i due si è fatto più complicato anche a causa dell’incertezza delle scelte che il Professore compirà . Non si tratta allora di concordare un cartello elettorale, ma di porre le premesse per un governo capace di dare soluzione alla pesante difficoltà  che strazia una parte dei cittadini e contemporaneamente rispettare gli impegni e le attese dell’Unione europea. Aspettare l’esito elettorale espone tutti al pericolo di far fallire questi obiettivi. A urne chiuse, l’unico filo che terrà  insieme il prossimo governo sarà  quello dei numeri. Come ha detto Napolitano: l’incarico sarà  affidato a chi vince. E due mesi dopo, la stessa regola potrebbe essere imposta per scegliere il successore del capo dello Stato.


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