Il Fmi taglia le stime sull’Italia «Manca il credito alle imprese»

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DAVOS — Non è la limatura al ribasso ciò che colpisce nell’ultima revisione delle previsioni del Fondo monetario internazionale. Che il prodotto interno lordo dell’Italia si contragga dell’1% e non dello 0,7% nel 2013 lo stimano anche molti analisti privati e quelli di Bankitalia. E che l’area euro abbia davanti a sé un altro anno di recessione, con il Pil che scivola dello 0,2% anziché salire di altrettanto, è insito nel ritmo al quale l’economia sta entrando nel nuovo anno.
Più eloquenti per la comunità  finanziaria da ieri riunita a Davos sono state le motivazioni di questa limatura alla speranza di ripresa. Contano le osservazioni espresse dal Fmi e dal suo direttore Christine Lagarde, ma anche i loro sottintesi. Il calo nelle previsioni, scrive il Fondo nel suo comunicato di ieri, «riflette il ritardo nella trasmissione dell’abbassamento degli spread sovrani alle condizioni di credito al settore privato». Pesa dunque «l’incertezza, ancora elevata, sulla risoluzione definitiva della crisi malgrado i progressi recenti». In altri termini, il Fmi da Washington e il suo direttore francese ieri da Davos recapitano un messaggio basato sulla realtà  delle imprese. C’è uno spread che scende, quello fra Bund tedeschi e Btp italiani, ma ne esiste anche un altro che invece non fa che allargarsi: è quello fra il costo di finanziamento dello Stato (molto migliorato) e l’onere sui debiti per le famiglie e le imprese, rimasto invece dov’era nei momenti peggiori del 2012. Due imprese in tutto uguali situate in Italia e in Germania continuano a pagare il credito a costi radicalmente diversi: il 2,8% a medio-lungo termine per un’azienda tedesca, circa il 6% per una sua concorrente basata dall’altra parte delle Alpi.
Ciò significa che il Fondo monetario ha tagliato le stime dell’Italia perché le banche non trasferiscono ai loro clienti il miglioramento nei Btp di cui sono piene. Il calo dello spread non si riflette ancora nel settore privato, il solo che può creare posti di lavoro. Se e quando questo effetto domino positivo si produrrà , il Fmi potrebbe migliorare le stime sull’Italia nel suo prossimo rapporto in aprile. Ma non è scontato, perché molte banche italiane per il momento sembrano impegnate soprattutto nella gestione delle crescenti sofferenze in bilancio.
Sono queste le domande più difficili che Mario Draghi dovrà  affrontare qui a Davos domani. Il presidente della Banca centrale europea in questa fase è poco meno che un oggetto di culto fra i banchieri del World Economic Forum: lo è da quando quest’estate ha fermato la deriva dell’euro grazie al nuovo piano di interventi dell’Eurotower. Ora però gli uomini di finanza del Forum (pochissime le donne) aspettano da Draghi un passo in più nel 2013. Gli analisti di Goldman Sachs o di JpMorgan aspettano che Draghi usi le armi della Bce contro il muro del credito bloccato alle imprese. La Banca centrale può fare ancora molto, se vuole alleviare i problemi e far sì che i tassi d’interesse nell’area euro siano simili per tutte le aziende: Draghi in particolare può lanciare un programma di acquisto di obbligazioni del settore privato, proprio per permettere la «trasmissione» della sua politica monetaria all’intera Eurolandia. Molti dei banchieri riuniti a Davos lo prevedono per il 2013, perché ciò darebbe finalmente fiato alle economie del Sud Europa. Per ora, questa opzione appare lontana e quasi impensabile: ma non più del piano di interventi sui titoli di Stato che, sei mesi fa, ha disinnescato il collasso del debito pubblico.


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