«Violate le leggi del mare» I marò non tornano in India

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ROMA — Restano in Italia i due marò accusati dal governo indiano di aver ucciso, il 15 febbraio dell’anno scorso, due pescatori al largo delle coste del Sud dell’India. Ad annunciarlo a sorpresa è stato ieri pomeriggio il ministro degli Esteri Giulio Terzi: «I fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non faranno rientro in India alla scadenza del permesso loro concesso», cioè il 22 marzo. I due marò erano ritornati in Italia il 23 febbraio, dopo che la Corte suprema indiana, il giorno prima, aveva concesso loro una licenza di quattro settimane per il voto e per incontrare le famiglie.
Non è una decisione presa di comune accordo con l’India: con la scelta di non far rientrare in India i marò c’è la «formale instaurazione di una controversia internazionale tra i due Stati», scrive la Farnesina. La reazione del governo indiano per ora è cauta: il ministro degli Esteri indiano Salman Kurshid ha dichiarato che esamineranno la posizione italiana e che «non sarebbe bene reagire ora». Meno diplomatica una fonte diplomatica all’Onu: «I due marò italiani devono essere processati in India secondo le leggi indiane».
L’Italia invece punta ad un arbitrato internazionale, da svolgersi sotto la supervisione del Tribunale del mare di Amburgo o la Corte internazionale di giustizia dell’Aia. Del resto, il nostro Paese ha «sempre ritenuto che la condotta delle autorità  indiane violasse gli obblighi di diritto internazionale gravati sull’India». In particolare, due sono i principi del cosiddetto diritto consuetudinario a cui si è sempre appellato il nostro Paese perché i marò non venissero giudicati dalle autorità  indiane: «il principio dell’immunità  dalla giurisdizione degli organi dello Stato straniero e le regole della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982». Diversa la posizione dell’India, fin dai primissimi momenti subito dopo l’incidente. Quando i due pescatori indiani vennero trovati uccisi da colpi di arma da fuoco a bordo della loro barca, al largo delle coste del Kerala, della loro morte vennero accusati subito i due marò, in servizio anti-pirateria sulla petroliera Enrica Lexie (ma loro sostengono di aver sparato in aria). Il fatto sarebbe avvenuto in acque internazionali, oltre il limite delle 12 miglia nautiche delle acque territoriali, ma gli accusati vennero spediti nel carcere indiano di Trivandrum, capitale dello Stato federale del Kerala. Dopo quasi tre mesi, vennero trasferiti a Kochi, con il divieto di lasciare la città . Ci è voluto quasi un anno perché la Corte suprema indiana stabilisse, il 18 gennaio scorso, che il governo del Kerala non ha giurisdizione sul caso. Rimandando la decisione sulla competenza ad un tribunale speciale da costituire a New Delhi. L’Italia, dopo questa sentenza, aveva «proposto formalmente al governo di New Delhi l’avvio di un dialogo bilaterale per la ricerca di una soluzione diplomatica del caso, come suggerito dalla stessa Corte, là  dove richiamava l’ipotesi di una cooperazione tra Stati nella lotta alla pirateria». Una proposta a cui l’India non ha mai risposto: motivo per cui «il governo italiano ritiene che sussista una controversia con l’India», e il ministero degli Esteri, d’intesa con i ministri della Difesa e della Giustizia e in coordinamento con la presidenza del Consiglio dei ministri, ha informato ieri l’Ambasciata indiana a Roma che i fucilieri non torneranno in India. «Un tradimento», commenta padre Thomas Kocherry, prete della Congregazione redentorista e uno dei leader del movimento di difesa dei pescatori del Kerala: «Ora vedremo cosa faranno la Suprema corte indiana e il governo. Ma non ci fidiamo: per loro la vita dei pescatori indiani non ha nessun valore».
Valentina Santarpia


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