LA CRUNA DELL’AGO

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Non fra Pdl e M5S, pietanza indigesta a entrambi i commensali. Non la Grosse Koalition fra centrosinistra e centrodestra: in questo caso non ci sta il Pd. Non un governo tecnico come il fu governo Monti, che non ha lasciato vedove piangenti ai propri funerali. Insomma i nostri voti si sono trasformati in veti, e inesorabilmente i veti ci stanno riportando al voto.
C’è un modo per uscire dalle secche? C’è una regola transitoria che può guidarci in questa transizione? Fin qui la novità  ha investito l’elezione dei presidenti delle Assemblee legislative. Lo schema replica il passato: al partito vittorioso la presidenza del Senato, al suo alleato principale quella della Camera. Dove infatti nelle ultime tre legislature si sono avvicendati Fini, Bertinotti, Casini, nella loro qualità  di leader del secondo partito di governo. Ma stavolta no, non c’è Vendola al timone di Montecitorio. C’è una neodeputata, e c’è un neosenatore sullo scranno di palazzo Madama. Lo schema è uguale, cambiano però gli interpreti, e cambia dunque la sostanza stessa della regola.
Da qui il successo di Bersani; ma da qui anche il suo probabile insuccesso. Come potrà  infatti ripetere l’impresa, come potrà  calamitare qualche adesione dei senatori a 5 Stelle, se riceverà  lui stesso l’incarico di formare il gabinetto? A torto o a ragione, da quelle parti la sua faccia bonaria riflette il volto truce dei partiti; per mietere consensi serve quindi l’homo novus, e serve una nuova regola, diversa da quella che fin qui assegnava il bastone del comando al leader del partito maggiore. Solo che in questa circostanza il nuovo coincide con l’antico, con due norme della nostra vecchia Carta che non abbiamo mai preso sul serio.
Dice l’articolo 92: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio». Dunque gli attori sulla scena sono due persone, non due o quattro partiti. D’altronde la Costituzione non cita mai i partiti nel processo di formazione del governo, benché la partitocrazia abbia poi ingoiato qualunque altra istituzione. Non contempla governi tecnici, né governi di scopo, di scopa o di tressette: ogni governo è politico, ognuno ha uno scopo da raggiungere. Infine non lascia spazio a governi del presidente, dato che il governo è sempre sottoposto alla signoria del Parlamento. E allora facciamolo, questo governo antico e nuovo. Apartitico, ma non apolitico, non con l’abito professorale che calzava l’esecutivo Monti. Innervandolo piuttosto con persone in cui ogni cultura politica possa rispecchiarsi: una somma d’identità  parziali, un governo di tutti e di nessuno. Appoggiato, magari, solo indirettamente dai principali partiti.
Qui risuona un’altra norma, l’articolo 67 della Carta: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione». Nazione, non fazione. Dunque ogni parlamentare custodisce l’interesse collettivo, non quello del proprio elettorato. E tutti noi abbiamo interesse a liberarci del Porcellum, a un’iniezione di moralità  nella nostra vita pubblica, a misure sul lavoro e sull’economia. Se nascerà  una buona proposta di governo, ricordatevi che la Nazione ha bisogno d’un governo


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