Usa, Obama dà il via ai colloqui di pace «Risultato possibile»

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GERUSALEMME — Definisce la pace «possibile e necessaria» come aveva proclamato quasi cinque mesi fa a Gerusalemme davanti agli studenti che erano venuti ad ascoltarlo. Adesso Barack Obama parla da Washington dove ieri sera i negoziatori israeliani e palestinesi si sono seduti allo stesso tavolo per la prima volta da tre anni. Alla stessa tavola, quella dell’Iftar , il pasto che rompe il digiuno giornaliero del Ramadan, il mese più sacro per i musulmani: a casa di John Kerry che ha imbandito questa ripresa delle trattative.

Il presidente americano ammette che i mediatori avranno «un lungo e duro lavoro da compiere», considera i due incontri — il secondo è oggi — un promettente passo in avanti. Per ora Tzipi Livni, ministro della Giustizia nel governo di Benjamin Netanyahu, e Saeb Erekat, consigliere del presidente Abu Mazen, affrontano solo dettagli procedurali: il calendario dei colloqui, che dureranno 9 mesi, dove avverranno e in che ordine dovranno venire affrontate le questioni. Perché le più importanti sono rimaste fuori dall’intesa ottenuta dal segretario di Stato: le trattative partono senza precondizioni come hanno chiesto gli israeliani, mentre i palestinesi avrebbero voluto che i confini del 1967 facessero da base per le discussioni sulle terre dove dovrebbe nascere il loro futuro Stato.

Yasser Abed Rabbo, tra i leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, spiega che la lettera d’invito a Washington non specifica quali punti verranno trattati: «Credo che partiremo con sicurezza e confini». Silvan Shalom, ministro vicino a Netanyahu, invece, è convinto che «tutti gli ostacoli più grandi verranno affrontati subito e insieme».

Kerry indica come obiettivo «un ragionevole compromesso» e per raggiungerlo nomina come mediatore Martin Indyk, ambasciatore in Israele sotto Bill Clinton e con lui nella squadra che tredici anni fa a Camp David aveva cercato senza riuscirci di far firmare un’intesa tra il laburista Ehud Barak e Yasser Arafat.

Questa volta il premier israeliano viene dalla destra e deve affrontare l’opposizione all’interno del suo Likud: per placare il partito — sostiene il telegiornale del Canale 10 — progetta di costruire un migliaio di nuovi alloggi nelle colonie in Cisgiordania. Anche gli editorialisti a sinistra sono convinti che Netanyahu possa — se vuole — realizzare l’accordo di pace. Per ora ha ottenuto dal governo — dopo sei ore di discussione e il voto contrario di 7 ministri su 20 — il sì alla liberazione in varie fasi di 104 detenuti in carcere da oltre vent’anni, da prima del trattato di Oslo. Non solo palestinesi, anche arabi israeliani che hanno partecipato ad attentati: Israele si è quasi sempre rifiutata di rilasciare quelli che sono suoi cittadini come gesto verso l’Autorità di Ramallah perché lo considera una violazione della sovranità.

Dall’altra parte Abu Mazen — scrive Oudeh Basharat sul quotidiano Haaretz — ha imparato «a giocare a scacchi»: «I palestinesi oggi appaiono diversi. Hanno già la struttura di uno Stato che risponde agli obblighi e alle richieste internazionali».

Davide Frattini


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