Segretario pd e sindaco La sfida (doppia) di Renzi

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ROMA — «Matteo ha scommesso 50 euro? Beh… non mi sembra una gran cifra!». La battuta è di Paolo Gentiloni, uno dei parlamentari più ascoltati dal sindaco di Firenze, il quale due giorni fa ha puntato una banconota sull’idea di restare «un altro giro» a Palazzo Vecchio. Ma l’uscita di Matteo Renzi non prelude certo a un passo indietro rispetto alla segreteria del Pd, perché la strategia del primo cittadino passa attraverso il doppio incarico: sindaco e (al tempo stesso) leader del partito. «A giudicare dal crescente consenso della nostra amministrazione — ha detto due giorni fa a Firenze — mi sono convinto che fare il sindaco e il leader nazionale è assolutamente compatibile».
Salvo clamorosi ripensamenti, dunque, la scelta di candidarsi alla successione di Guglielmo Epifani è ormai matura. Ma Renzi scioglierà la riserva solo dopo l’Assemblea nazionale del 20 e 21 settembre, perché, spiegano i suoi, le ferite delle primarie «bruciano ancora» e Matteo non si fida dei dirigenti del Pd. Teme che la data del 24 novembre sia destinata a saltare e che il congresso finisca alle calende greche. E non è l’unica preoccupazione… Chi può garantirgli che al tavolo delle regole non gli stiano preparando «un trappolone»?
«Venuto meno Berlusconi e l’antiberlusconismo, ora il collante che tiene uniti i vecchi dirigenti è l’antirenzismo — attacca l’onorevole Ernesto Carbone —. Per loro è un’autentica ossessione». Ecco perché il sindaco vuole vedere le regole nero su bianco, prima di scendere in campo. Sulla carta non ha avversari. L’accoglienza alle feste dell’Emilia rossa dimostra che la base è entrata in sintonia con i temi della rottamazione. Il problema è la platea delle primarie: più è ristretta, più Renzi rischia. «La possibilità che votino solo gli iscritti è stata tolta di mezzo — avverte Lorenzo Guerini, il plenipotenziario del sindaco al tavolo delle regole —. Confido che le primarie siano aperte a un’ampia partecipazione. Un segretario forte è un elemento di stabilizzazione del governo».
Per gli ex ds, a cominciare da Pier Luigi Bersani, il sindaco è invece una mina che va disinnescata. Il che spiega il tentativo di dilatare a dismisura i tempi del congresso. Con quali obiettivi? I renziani la spiegano così. Primo scenario: il governo precipita dopo l’estate, le primarie per la leadership non si fanno e si apre la battaglia per Palazzo Chigi, dove il sindaco e il premier in carica sono i duellanti naturali. «Altro che patto tra Enrico e Matteo — conferma un dirigente che li conosce bene entrambi —. Letta e Renzi non prenderanno insieme, d’ora in avanti, neppure un caffè». Secondo scenario: il governo si consolida e i vertici del Pd tentano di spingere il congresso più in là possibile anche per mettere in difficoltà Renzi, che non potrebbe abbandonare Firenze subito dopo la rielezione.
Mentre i nemici interni fanno i loro calcoli, Renzi tira dritto e progetta di radere al suolo il Pd, per ricostruirlo come una forza «moderna e leggera». Un partito che abbia un leader forte, non può fare a meno di organismi come la segreteria? E la direzione, non è meglio sostituirla con i gruppi parlamentari, magari rafforzandola con qualche innesto esterno? È questo il piano che terrorizza i capicorrente, è l’idea di essere spazzati via dal nuovo che avanza, un nuovo che i militanti non sentono più come un corpo estraneo. Lo ammette Paola De Micheli, deputata molto vicina a Letta: «Un tempo Matteo aveva il problema della base, ma adesso non è più così…». Se si candida a segretario vince, a meno che gli ex ds non riescano a trovare l’anti-Renzi che cercano.
Lo conferma la freddezza con cui Nico Stumpo dice che, se dovesse scendere in campo, «lui sarà uno dei candidati alla segreteria» e diventerà leader solo «se riporterà la maggioranza». Ecco, il clima è questo. «La mia testa? Non credo che nessuno abbia a chiederla — spera Stumpo —. Non temo nessuna pulizia etnica, perché noi rispondiamo ai nostri elettori».
Monica Guerzoni


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