Interdizione: la prassi e l’ipotesi delle «meline»

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Una questione solo rinviata. La Cassazione ha ritenuto solo eccessiva l’entità della pena accessoria (5 anni) e disposto che si ricalcolasse. Ma comunque dovrebbe arrivare.
Prevista dagli art. 28-29 del codice penale l’interdizione priva il condannato «del diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale, e di ogni altro diritto politico e di ogni pubblico ufficio». Assieme ad una serie di altri diritti come essere concessionario incaricato di pubblico servizio, esercitare la patria potestà, fregiarsi di titoli onorifici come Cavaliere.
Al termine del giudizio scatterà automaticamente: a differenza dell’incandidabilità non prevede voti. Il Parlamento è tenuto a dare esecuzione alla pena. Ma la prassi parlamentare ha previsto comunque nel corso degli anni un passaggio in Giunta. E un voto, anche se mai è successo che venisse respinta l’esecuzione della pena.
È successo invece, in vari casi, che il Parlamento la tirasse un po’ per le lunghe. Ed evitasse per mesi di riunirsi pur di non prendere atto della condanna. Anche perché a volte il voto veniva reso superfluo dalle dimissioni dell’interessato. O dalla revoca della misura che il magistrato, all’esito del periodo di affidamento ai servizi sociali, può disporre. Tra i casi di queste “meline” istituzionali c’è chi in Parlamento cita il caso di Giuseppe Drago, rimasto un anno a Montecitorio, dopo essere stato interdetto. O quello di Gianstefano Frigerio, ex dc incappato in Mani Pulite, con diverse condanne definitive divenute esecutive due giorni dopo l’elezione con Forza Italia, cui il giudice permise di tornare in Parlamento. Inedita forma di affidamento in prova ai servizi sociali che (in teoria) potrebbe permettere anche a Berlusconi di «non mollare» l’attività politica.
Virginia Piccolillo


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