L’illusione tedesca
Un’inquietudine inizia ad aggirarsi in Germania, riassunta nel titolo di un volume di successo: «L’illusione tedesca. Perché sovrastimiamo la nostra economia e perché abbiamo bisogno dell’Europa» (Die Deutschland-Illusion, Hanser, 2014). L’autore è Marcel Fratscher, direttore dell’Istituto tedesco per la ricerca economica, un moderato lontano dalle tentazioni keynesiane.
Iniziamo da una domanda: qual è il paese che dal 2000 ad oggi registra una crescita inferiore a quella media della zona euro, nel quale la produttività cresce poco, due terzi degli occupati hanno visto diminuire i loro redditi e sono aumentate fortemente le diseguaglianze di reddito e di patrimonio, un paese ormai tra i più disuguali d’Europa? La risposta — inattesa — è la Germania, in preda a tre pericolose illusioni: la prima è che il suo futuro economico sia sicuro, mentre l’economia mostra segni di declino. La seconda è che la Germania non avrebbe bisogno dell’Europa, quando invece i paesi dell’Ue resteranno a lungo i partner principale di Berlino. La terza è che l’Europa serve soltanto a succhiare il denaro dei tedeschi, quando in realtà porta alla Germania grandi vantaggi. Vediamo i dati. La crescita tedesca si è inceppata. Nel secondo trimestre del 2014 il pil tedesco è diminuito dello 0,2% e le previsioni per la fine dell’anno sono meno positive di qualche mese fa. Pesano la recessione nel resto d’Europa, la crisi ucraina e la guerra in Medio oriente. L’indice degli ordini nell’industria è sceso del 5,7% in agosto, la riduzione più elevata dal gennaio 2009, al momento del manifestarsi della crisi, e la produzione industriale di agosto pare sia calata del 4%.
In questo quadro la politica di equilibrio di bilancio perseguita dal governo sembra sempre più insensata. Si scopre che gli investimenti del settore pubblico nel 2013 sono stati di appena 1,6% del pil, inferiori a quelli italiani (1,7%), contro una media Ue del 2,2%. Anche gli investimenti privati sono crollati: dopo la caduta del muro erano al livello record del 25% del pil, ora siamo sotto al 20%. Prosperano invece gli investimenti esteri fuori dall’Europa; tra gennaio e settembre di quest’anno le imprese tedesche hanno investito 65 miliardi di dollari per comprare società statunitensi, molto di più che in passato. A essere prese di mira sono soprattutto imprese con una forte base commerciale e produttiva nei paesi emergenti. Sembra essere questa la via che viene a prendere in misura crescente il reimpiego del surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti tedesca: 250–300 miliardi di dollari nel 2014, una cifra record, più dell’avanzo cinese, uno dei fattori più gravi che alimentano gli squilibri europei.
La scelta tedesca di utilizzare l’avanzo con l’estero per investimenti internazionali ha l’effetto di indebolire la base produttiva interna e di deprimere la crescita; si tratta di una novità per Berlino, ma è una scelta già realizzata in passato dalla Gran Bretagna alla fine dell’impero – che ne segnò il declino. Allo stesso esito porta la rigidità tedesca sul rispetto delle politiche di austerità in Europa, una scelta che riproduce le politiche che hanno provocato la grande depressione degli anni trenta. Il nostro complesso di superiorità — è l’ammonimento di Marcel Fratscher ai tedeschi — ci rende ciechi rispetto alle sfide del nostro tempo, al fatto che il futuro comune dell’Europa è fondamentale per la Germania e che bisogna battersi per l’integrazione e l’unificazione europea, per noi stessi e per le generazioni future. A Berlino chi ascolta?
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