Ren­zi­smo. Il populista istituzionale

Ren­zi­smo. Il populista istituzionale

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La foto­gra­fia scat­tata un anno fa dallo spe­ciale di Sbi­lan­ciamo l’Europa sull’alba del ren­zi­smo si rivela per­fet­ta­mente a fuoco ancor oggi, in quello che potremmo defi­nire il merig­gio del ren­zi­smo. Non certo grande come quello dello Zara­thu­stra di Nie­tzsche, ma, allo stesso modo, capace di mostrare le cose senz’ombre e per que­sto «rive­la­tore dell’enigma dell’eterno pre­sente».
S’individuavano allora i suoi tratti di con­ti­nuità con il doro­tei­smo demo­cri­stiano, con l’aziendalismo media­tico ber­lu­sco­niano e con l’affabulazione post-socialista e neo-liberista blai­riana. Si mostrava il carat­tere sostan­zial­mente con­ser­va­tore, se non rea­zio­na­rio, della sua rete sociale di rife­ri­mento (di bloc­chi sociali non si può più par­lare nella nostra società liquida), col­lo­cato pre­va­len­te­mente sul ver­sante del pri­vi­le­gio, cioè di chi nel gene­rale declino sociale conta di sal­varsi, gra­zie a pro­te­zioni, gio­chi finan­ziari e posi­zioni di ren­dita. Soprat­tutto si denun­ciava l’internità del suo pro­getto all’agenda libe­ri­sta della finanza inter­na­zio­nale e della cupola che domina l’Europa, masche­rata sotto una reto­rica tri­bu­ni­zia da palin­ge­nesi totale. Un novum, nel pano­rama antropologico-politico, che per­met­teva fin da allora di par­lare dell’apertura di una nuova fase, segnata da uno stile di governo ormai pie­na­mente post-democratico (e sostan­zial­mente a-democratico).

Ed è pro­prio que­sto ele­mento che si è dram­ma­ti­ca­mente con­fer­mato, fino ad assu­mere carat­tere domi­nante, nell’anno di governo che ci sta alle spalle. Sia le cosid­dette riforme isti­tu­zio­nali sboz­zate con la scure dei colpi di mano par­la­men­tari, sia quelle sociali (meglio sarebbe chia­marle anti-sociali) come il decreto Poletti e il Jobs Act, ma anche il decreto Sblocca Ita­lia rical­cano, in forma imba­raz­zante, le linee guida della Troika, senza nep­pure uno sco­sta­mento di maniera.

Ripro­du­cono, intro­iet­tate come pro­po­ste auto­nome, gli stessi punti dei fami­ge­rati Memo­ran­dum impo­sti, manu mili­tari dai Com­mis­sari euro­pei, a paesi come la Gre­cia (che di quelle cure è social­mente morta), ma anche come la Spa­gna (che si dice abbia i conti a posto ma una disoc­cu­pa­zione sopra il 25%), come il Por­to­gallo (14% di disoc­cu­pati, quasi il 50% di pres­sione fiscale), e come l’Irlanda (debito delle fami­glie sopra il 200% del loro red­dito). Si chia­mano pri­va­tiz­za­zioni, abbat­ti­mento del red­dito e dei diritti del lavoro, de-costruzione dei sistemi di wel­fare, tas­sa­zione spie­tata sulle fasce più basse, ridu­zione degli ammor­tiz­za­tori sociali, ridu­zione della Pub­blica Ammi­ni­stra­zione, limi­ta­zione della demo­cra­zia e dell’autonomia delle assem­blee rap­pre­sen­ta­tive, neu­tra­liz­za­zione dei corpi inter­medi.
Il tutto coperto da una nar­ra­zione roboante e riven­di­ca­tiva, fatta di pugni sul tavolo, lotta alla casta e sua rot­ta­ma­zione, cac­cia al gufo e apo­lo­gia della velo­cità, cam­bia­menti di verso e taglio delle gambe ai fre­na­tori, denun­cia dell’inefficienza degli organi rap­pre­sen­ta­tivi (Sena­tus mala bestia), attacco ai sin­da­cati e in gene­rale alle rap­pre­sen­tanze sociali. È, appunto, il popu­li­smo dall’alto. O il popu­li­smo di governo: una delle peg­giori forme di popu­li­smo per­ché somma la carica dis­sol­vente di quello dal basso con la potenza isti­tu­zio­nale della sta­tua­lità. E piega il legit­timo senso di ribel­lione delle vit­time a fat­tore di legit­ti­ma­zione dei loro car­ne­fici. Non è dif­fi­cile leg­gere, die­tro la strut­tura lin­gui­stica del discorso ren­ziano, le stesse imma­gini e gli stessi sti­lemi dell’apocalittica gril­lina, l’enfasi da ultima spiag­gia, la denun­cia dei paras­siti, la stig­ma­tiz­za­zione dei par­titi poli­tici (com­preso il pro­prio), e lo stesso peren­to­rio «arren­de­tevi» rivolto ai pro­pri vec­chi com­pa­gni diven­tati nemici interni. Simile, ma fina­liz­zato, in que­sto caso, a una sem­plice sosti­tu­zione di lea­der­ship interna. A una sorta di rivo­lu­zione conservatrice.

Que­sto è stato Mat­teo Renzi in quest’anno di gestione del potere: un popu­li­sta isti­tu­zio­nale. Forse l’unica forma poli­tica in grado di per­met­tere al pro­gramma anti­po­po­lare che costi­tui­sce il pen­siero unico al ver­tice dell’Europa di imporsi in un paese come l’Italia, nella crisi gene­rale e con­cla­mata delle forme tra­di­zio­nali della poli­tica (in par­ti­co­lare della forma par­tito), e nel defi­cit ver­ti­cale di fidu­cia nei con­fronti di tutte le isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive nove­cen­te­sche. È stato lui il primo impren­di­tore poli­tico che ha scelto di quo­tare alla pro­pria borsa quella crisi: di tra­sfor­mare da pro­blema in risorsa il male che con­suma alla radice il nostro sistema demo­cra­tico. Con un’operazione spre­giu­di­cata e spe­ri­co­lata, che gli ha garan­tito finora di gal­leg­giare, giorno per giorno, sulle sab­bie mobili di un sistema isti­tu­zio­nale lesio­nato e di una situa­zione eco­no­mica sem­pre vicina al col­lasso, senza risol­vere uno solo dei pro­blemi, alcuni incan­cre­nen­doli, altri rin­vian­doli sem­pre oltre il suc­ces­sivo osta­colo. E comun­que gestendo il declino col piglio del bro­ker (è lui, d’altra parte, che ha dichia­rato senza ver­go­gnar­sene che è stato il primo a capire che l’Italia era un paese sca­la­bile), pronto a uscire dall’investimento un attimo prima del crollo in borsa. Novello funam­bolo – per ritor­nare alle meta­fore nie­tzschiane — in bilico sul filo. E la resi­dua pla­tea elet­to­rale a naso in su, di sotto, nel mer­cato, incerta tra l’aspettativa della caduta e il timore che oltre quella sua siepe ci sia solo il buio.

È stato quel buio, finora, il suo prin­ci­pale alleato: la promessa-minaccia che «après moi le déluge». Dalla Gre­cia, a oriente, e dalla Spa­gna a occi­dente, arri­vano ora lampi di luce, che potranno, nei pros­simi mesi, dis­si­pare quel buio.



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