I metalmeccanici in piazza per una paga più giusta

I metalmeccanici in piazza per una paga più giusta

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La battaglia sta tutta lì: nell’aumento del salario. Lo otterranno, a livello nazionale, da Roma, i tre sindacati Fim, Fiom e Uilm, o lo potrà dare in futuro solo il singolo imprenditore, in azienda, a patto però che i lavoratori firmino un accordo in loco e riescano a «produrre ricchezza», come dice il presidente di Federmeccanica Fabio Storchi? In questo braccio di ferro sta la partita che ieri ha visto le tute blu schierare le proprie forze in piazza, mentre dall’altro lato Confindustria – con il governo che offre una sponda detassando il salario e il welfare erogati a livello aziendale – cerca di portare a casa la «rivoluzione 4.0», che oltre che industriale sarà anche (forse) contrattuale.

In tutto questo, in mezzo, ci stanno loro, gli 1,6 milioni di dipendenti metalmeccanici italiani, tute blu e impiegati: una categoria che rappresenta uno dei fiori all’occhiello della produzione manifatturiera del nostro Paese – ci confermiamo al secondo posto nell’Unione europea dopo la Germania – ma che è stata fortemente provata dalla crisi.

Riprendersi dopo la bufera
Secondo i dati di Federmeccanica/Eurostat (giugno 2015) i metalmeccanici italiani sono 1.631.817. Ma erano molti di più, circa due milioni, prima dell’inizio della crisi: in otto anni si sono persi oltre 300 mila posti di lavoro, ha calcolato la Fiom. Intensissimo, di pari passo, il ricorso alla cassa integrazione: quella ordinaria ha avuto il suo picco nel 2009, quella straordinaria nel 2010, ma è tornata a salire esponenzialmente nel 2014, a dimostrazione che – come diceva Maurizio Landini parlando ieri dal palco di Milano – «la crisi per noi (per le tute blu, ndr) non è ancora finita». Scorrendo i tavoli aperti al ministero dello Sviluppo troviamo infatti molte imprese del comparto – dalla OmCarelli alla Solsonica, dalla Piaggio Aerospace alla Belleli. E dire – per continuare a citare Landini – che il settore «rappresenta quasi il 50% del Pil: quindi – conclude il sindacalista – adesso Federmeccanica ci deve riconoscere l’aumento del potere di acquisto».

Il settore metalmeccanico, spiega Federmeccanica, è molto forte nell’export: esporta beni per 191 miliardi che rappresentano quasi la metà del fatturato settoriale. L’attivo del suo interscambio (65 miliardi di euro) contribuisce al totale riequilibrio della bilancia commerciale italiana, strutturalmente deficitaria nei settori energetico e agro-alimentare. Il 40% degli addetti lavora nella metallurgia e nella produzione di prodotti in metallo, il 25% nelle macchine e apparecchi meccanici, il 17% nei mezzi di trasporto, l’11% produce macchine e apparecchi elettrici, e infine il 7% nei computer e prodotti di elettronica e ottica.

Quanto guadagna un metalmeccanico? Qui arrivano le note dolenti, e forse comprendiamo ancora di più la battaglia dei contratti, guardando ai numeri: un operaio di terzo livello guadagna 1700 euro lordi al mese (che salgono a 1850 incluse integrazioni e premi); al netto, dove si gioca il potere di acquisto, si riducono a circa 1200. Circa 1400/1500 netti per un quinto livello, ma se scendiamo agli apprendisti e ai livelli più bassi si arriva a circa 1000 euro netti. Per gli impiegati andiamo dai 1000 netti fino ai 2500-3500 medi per un impiegato e quadro più elevato.

Colleghi tedeschi ben più ricchi
In Germania, dove i metalmeccanici sono oltre il doppio (3,6 milioni), il trattamento economico riservato ai lavoratori è molto migliore: in Italia, spiega la Fiom, per ogni ora lavorata vengono corrisposti circa 18 euro di retribuzione lorda più 7 oneri sociali; in Germania rispettivamente 31 euro e 6 euro all’ora. Il costo del lavoro per dipendente italiano viaggia attorno ai 40 mila euro, ed è in linea con quelli di Spagna e Regno unito, mentre è di circa 15-20 mila euro inferiore rispetto a quello che troviamo in Francia, Germania, Danimarca e Olanda.

La presenza di lavoro immigrato non è altissima: siamo a circa il 4% sul totale degli addetti, ma in 15 anni la crescita è stata molto forte perché la percentuale nel 1990 era dello 0,25%.

Il precariato e il lavoro sommerso, per la tipologia specifica del settore – svolto perlopiù in ben definiti siti industriali, con una tradizione contrattuale molto antica e consolidata – non incide ai livelli di altri comparti più giovani o a più alto tasso di irregolarità, come il commercio o la raccolta nei campi: il tempo indeterminato risulta al 96% contro un 4% di tempi determinati e apprendisti. Ma dilagano gli appalti (dove sotto l’apparenza di lavoro regolare e stabile si può annidare l’abuso), e ultimamente si diffondono anche le partite Iva e il lavoro accessorio.

È iscritto al sindacato un lavoratore su 3 (33%), dato che è sceso parecchio rispetto a 20 anni fa: nel 1995 avevano una tessera 4 lavoratori su 10 (39%).



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