La questione Montepaschi

La questione Montepaschi

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Durante la guerra in Iraq Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa di George W. Bush, operava una classificazione che in questa estate di fuoco può tornare utile alle banche italiane. Rumsfeld distingueva fra le incognite ben note per quali non abbiamo ancora risposte, e quelle delle quali per il momento non conosciamo neppure l’esistenza.

Dopo il varo di un piano di risanamento del Monte dei Paschi tre sere fa, più modestamente, in Italia restano due interrogativi di fondo. Il primo riguarda l’istituto di Siena: solo i prossimi mesi diranno se il mercato riuscirà a risolvere i suoi problemi esistenziali e se è davvero tramontata l’ipotesi di un salvataggio pubblico, con sacrificio di investitori grandi o piccoli. Ma il secondo quesito coinvolge il sistema bancario nel suo complesso, perché non è chiaro se superare il caso Mps possa rendere tutto il resto molto più facilmente gestibile, o se invece torneranno presto nuove fasi di stress.

Per nessuna delle due domande esistono risposte certe. Stanno giusto iniziando ad allinearsi i fattori che contribuiranno a fornirle nei prossimi mesi, a partire da quanto accadrà attorno a Siena. Il “consorzio” di banche che in autunno dovrebbero trovare compratori di azioni di Mps per un aumento di capitale da cinque miliardi è ormai così affollato da tradire con le sue stesse dimensioni la difficoltà dell’operazione. Ai capofila JpMorgan e Goldman Sachs e alla prima lista di supporto con Mediobanca, Citi, Credit Suisse, Bank of America-Merrill Lynch, Santader e Deutsche Bank, si stanno aggiungendo altri sei o otto istituti fra i quali Bbva, Société Générale e Commerzbank.

Non stupisce che Montepaschi sia disposta a pagare tutti questi soggetti per un aiuto, perché non è facile trovare investitori disposti a dare altri cinque miliardi a una banca che dal 2014 ha già bruciato otto miliardi di capitali freschi e ora vale appena 900 milioni. La novità è che il suo libro di crediti cattivi, un vero e proprio tumore nel bilancio, ora dovrebbe essere ridotto e ripulito. Ciò che non cambia invece è che Montepaschi potrebbe avere prospettive mediocri, perché opera in un’economia quasi immobile. La scommessa su Siena diventerà presto lo specchio di quanto gli investitori nel resto del mondo credono al futuro dell’Italia.

Nessuna delle banche dell’affollatissimo consorzio, per ora, ha garantito che comprerà le azioni di Montepaschi nel caso in cui nessuno le volesse. Da parte di Jp Morgan e delle altre c’è oggi solo un impegno a fare il “massimo sforzo” a trovare investitori. Questo significa che il rischio che l’aumento di capitale non vada in porto e debba intervenire il governo, con una sforbiciata sui creditori di Siena, formalmente non è ancora eliminato.

Una vera e propria garanzia del “consorzio” a stendere una rete sotto l’aumento di capitale di Montepaschi scatterà solo più avanti, quando il prezzo delle nuove azioni sarà fissato e queste saranno messe in vendita. L’operazione resta dunque sul filo, anche se non è mai accaduto negli ultimi decenni che Jp Morgan abbandonasse un incarico del genere senza condurlo in porto. Si tratterà di capire chi sarà disposto a rischiare i propri capitali per una banca che ne ha già bruciati molti, e perché: di certo alla fine del 2015 si era registrato un (vago) interessamento per Montepaschi da parte di grandi istituzioni cinesi. Vista da Pechino, Siena potrebbe diventare un primo affaccio importante sul sistema finanziario dell’area euro.

Resta poi aperta la seconda domanda, sul futuro del sistema bancario italiano. Proprio in queste settimane un altro istituto fragile, la Popolare di Vicenza, sta cercando il modo di liberarsi dei suoi crediti in default. Se il modello di Siena si applica anche alle altre aziende del credito, come probabile, allora anche Vicenza dovrà riconoscere forti perdite e trovare ancora nuovo capitale diluendo il valore delle quote del fondo Atlante che oggi la controlla. E altri casi simili sembrano dietro l’angolo.

Dopo tutto anche l’Iraq è stata una campagna più lunga di quanto Rumsfeld, con il calcolo delle incognite, fosse mai riuscito a prevedere.

Federico Fubini

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