Cgil: «Agire sulla 30 con la contrattazione»

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Epifani all’attivo dei precari del Nidil: «Per essere più forti ai tavoli con il governo, spuntiamo miglioramenti nei contratti». Resta aperto il nodo dei cocoprò, accettati dalla Cgil nell’avviso comune sui call center. Si vuole l’unificazione del lavoro oppure no?

(il manifesto, 7 febbraio 2007)

Antonio Sciotto
Roma
Brain storming dentro la Cgil per capire cosa si dovrà chiedere al governo al prossimo tavolo sulla precarietà: l’occasione è stata offerta dall’attivo nazionale dei quadri e delegati del Nidil, categoria istituita appositamente per i lavoratori precari (e sulla quale da qualche tempo si è intensificato il dibattito intorno alla sua sopravvivenza: dato che il precariato ormai è dappertutto, ha senso tenere in piedi una categoria ad hoc?). Da un po’ di tempo a questa parte la Cgil insiste sempre di più sull’importanza della contrattazione rispetto alla richiesta di modifiche legislative. La tesi è questa: se chiediamo solo le modifiche facendo una contrattazione debole, arriviamo deboli al tavolo. Al contrario, dei risultati concreti ci fortificheranno. Ieri questo è stato l’argomento più forte del segretario generale Guglielmo Epifani, messo al centro del suo discorso e ribadito più volte.
«Se chiedi una modifica legislativa – ha spiegato Epifani – sei nel giusto, ma attribuisci la responsabilità ad altri. Quando fai contrattazione, invece, chiedi per te». «Dobbiamo essere noi a muovere un salto culturale, prima con Cisl e Uil in un settore, poi in tutto il sindacato, e dunque nella legge: non ci illudiamo che basti solo cambiare la legge 30, perché poi arriva un altro governo e la cambia di nuovo». Giusto: la maturazione deve venire «dal basso», come dice Epifani, e cambiare dalla base la cultura del paese per spingere i legislatori a cambiare. Però.
Perché, ci chiediamo noi, se chiedi una modifica legislativa «attribuisci la responsabilità ad altri?». Il lavoratore, prima ancora di essere un soggetto che contratta, non è per caso un cittadino? La Cgil, insistendo negli ultimi cinque anni, fino al suo stesso Congresso, sul cambio delle leggi varate da Berlusconi, ha assolto non solo al ruolo classico di «sindacato» – che a volte rischia di essere corporativo se fa strettamente e solo il sindacato – ma anche a quello di motore di una migliore cittadinanza. E adesso, allora, perché improvvisamente frena su quel pedale per calcare quello della contrattazione? Nobilissimo, intendiamoci, ma insufficiente senza buone leggi a sostegno. Due esempi. Il primo è l’esternalizzazione del call center della Wind, contro cui il sindacato ha le mani legate con le leggi vigenti: può ritardare la cessione e spuntare clausole di salvaguardia occupazionale, chiamando alla responsabilità il committente, ma l’unica soluzione a monte è intervenire sulla legge 30 e ristabilire al minimo il principio della necessità di una reale autonomia «preesistente» per l’individuazione e la cessione di un ramo d’impresa. La Cgil, magari dopo una splendida contrattazione, chiederà questa modifica al governo?
Secondo esempio, ancora più spinoso: la circolare Damiano sui call center, l’avviso comune sindacati-Confindustria, l’ordine del giorno approvato dal Direttivo Cgil sull’interpretazione da dare all’avviso comune stesso. Tutti questi documenti hanno un punto in comune: il lavoro parasubordinato, sotto certe condizioni, è da ritenersi accettabile. Lo ha ribadito ieri la segretaria generale del Nidil, Filomena Trizio, nella sua relazione di apertura: «Bisogna intervenire sulla modifica delle leggi sul lavoro a partire dal concetto di economicamente dipendente, distinguere le “vere parasubordinazioni” da quelle false, dagli abusi che mascherano il lavoro dipendente». Il problema è che questi due concetti bisticciano tra loro: se dividi il lavoro tra «economicamente dipendente» ed «autonomo» in base alle proposte di legge Cgil di modifica del Codice civile, distingui nettamente tra chi è dipendente da un’organizzazione e un risultato stabilito da un altro (l’impresa) e chi invece non è inserito nell’organizzazione del lavoro altrui e può contrattare il compenso di una prestazione realmente esterna. A questo punto, però, il «parasubordinato», la forma dell’«area grigia», non dovrebbe sopravvivere. Invece è contenuta nella circolare Damiano, che la giustifica con una semplice autonomia rispetto agli orari e alla gerarchia aziendale, ed è stata accettata dalla Cgil in sede di avviso comune.
La «toppa» apposta a questa defaillance venne posta nell’ordine del giorno del Direttivo che specificò che i parasubordinati «non dovranno avere costi e diritti inferiori a quelli dei contratti nazionali». Ora si sta contrattando per la stabilizzazione dei precari dei call center, e finora in effetti non è emerso che nella «pratica contrattuale» la Cgil abbia mai accettato, insieme a Cisl e Uil, delle posizioni cocoprò. E la stessa Trizio ha detto in effetti che «per noi non si troveranno parasubordinati giustificati nei call center». Però resta un nodo irrisolto: la Cgil, dunque, contraddicendo alle sue proposte di legge, quando siederà al tavolo che dovrà riscrivere le leggi sul lavoro, deciderà comunque di accettare la figura del cocoprò proposta dal ministro Damiano? Al di là di quel che può sembrare, non è affatto un problema ideologico, o di pura lana caprina: ovunque infatti non si arrivi a contrattare, ovunque non arrivino gli ispettori del lavoro, ovunque non arrivi il sindacato, le imprese avranno carta bianca per continuare a utilizzare il contratto parasubordinato, mascherando lavoro dipendente, che sia o meno autonomo sia sul piano dell’organizzazione, del risultato, degli orari, o di quel che si vuole. La contrattazione, insomma, non può bastare. Ci vuole una nuova legge.
Ieri il Nidil ha diffuso i nuovi dati sui parasubordinati: nel 2005 erano iscritti al fondo separato Inps 1.685.071 lavoratori (1.475.111 collaboratori e 209.960 con partita Iva individuale). La media di età è di 41,2 anni, il 58% ha compensi medi annuali sotto i 10 mila euro. Dall’altro lato, in audizione alla Commissione Lavoro della Camera, il vicepresidente della Confindustria Alberto Bombassei ha spiegato che «oltre un terzo dei contratti a termine dell’industria, pari al 36%, al netto degli apprendisti, sono stati trasformati nel corso del 2005 a tempo indeterminato. Le nuove assunzioni nel 2005 – ha concluso – sono state realizzate per il 51% a tempo indeterminato, per il 45% a tempo determinato, per il 3% in inserimento, per l’1,2% in apprendistato».

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